La polemica sorta tra i 27 a proposito della non concordata visita di Viktor Orbán a Mosca e delle sue “proposte” di intesa con Vladimir Putin, rivelano una debolezza intrinseca dell’attuale fase dell’Unione europea. Se il premier ungherese si è permesso con disinvoltura di prendere iniziative controverse è perché non c’è una posizione definita tra i capi di stato e di governo.

Si può obiettare che è difficile averla in una situazione tanto complessa come l’attuale. Resta il fatto che l’Europa non sa dove andare, non ha una direzione politica e rimane incerta sul futuro. Ciò mette in crisi l’architettura del processo integrativo: senza un indirizzo ci si può legittimamente chiedere a cosa serva l’Europa. La reazione iniziale all’aggressione russa, la difesa e il supporto all’eroica resistenza ucraina è stata una decisione unanime, sorgiva, autentica.

Malgrado gli errori del passato, l’Europa non poteva ammettere una violazione così grave e unilaterale delle regole internazionali. Così la pensavano e continuano a pensarla un po’ tutte le nazioni del mondo. Ma subito dopo qualcosa si è grippato con la “narrazione della vittoria e del nemico esistenziale”, secondo cui la Russia andrebbe, punita, spaccata, piegata, vinta. Tale seconda fase ha reso le cose più difficili sia a livello interno che esterno.

La divisione

Su tale opzione l’Europa si è divisa: baltici, nordici e Polonia vedono nella Russia un nemico esistenziale ma tale non è la percezione degli europei occidentali. Dal profondo della storia sono risorte antiche paure e vecchi (pre)giudizi, sintetizzati nella formula: «se non la vinciamo adesso, la Russia lo rifarà». Si tratta di un’affermazione che non ha bisogno di prove né di giustificazioni ma si basa su una lettura unilaterale della storia. Il “terrore russo” risveglia antiche paure e non ha bisogno di essere dimostrato.

Per tornare coi piedi per terra basterebbe rammentare la storia della caduta del muro e della fase di riavvicinamento, della ricostruzione della pace in Europa dopo la guerra fredda, tornando indietro financo ai negoziati di Helsinki all’epoca dell’Urss… ma non serve per due motivi. In primo luogo la percezione degli stessi avvenimenti storici è molto diversa in Europa occidentale ed orientale. In secondo luogo la paura ha cancellato tutto e ciò che rimane è riletto in chiave complottista.

Gli europei dovrebbero conoscere bene i meccanismi della rimozione o della patologia della memoria, delle distorsioni causate dalla paura, così come di tutte le forme dubbie di manipolazione della storia. Purtroppo tale immunità è stata cancellata da tanti anni di antipolitica, populismo e allarmismi sulle migrazioni e così via. L’Europa ha perso la protezione costituita dal magistero culturale e politico del secondo dopoguerra.

La conseguenza è stata nefasta: appena l’Europa si è arresa alla narrazione della vittoria, accettando la visione della Russia come nemico assoluto ed esistenziale, Mosca ha potuto facilmente usare la medesima arma, ribaltando la colpa sugli occidentali anch’essi presentati come nemici esistenziali dell’oriente slavo. Ciò ha permesso ai russi di uscire dall’angolo degli aggressori per assumere la posizione delle vittime e utilizzare i medesimi espedienti polemici contro di noi.

Anche in Russia sono stati risvegliati antichi terrori (dai cavalieri teutonici al nazismo ecc.) manipolandoli a piacere. Il guaio è che in tale seconda fase il resto del mondo non ha più seguito gli occidentali, rimanendo incerto e talvolta addirittura accettando la versione russa della storia e l’accusa del doppio standard rivolta agli europei e agli americani. Fare le vittime è sempre un’arma a doppio taglio: avviene in tutte le guerre e chi attacca fa la vittima esattamente come chi si difende.

Una narrazione estranea

Il guaio è che l’Europa ha accettato una narrazione che non le appartiene: l’Unione europea è fondata su altri principi, radicalmente transattivi, dialoghisti e opposti alla cultura del nemico. Già esiste la Nato per difenderci e non c’è bisogno di replicarla, a meno di sostituirla integralmente. Fare la brutta copia non aiuta.

Come scrive Massimo Cacciari: «Più è evidente quanto sarebbe necessaria l’Europa unita nel perseguire politiche di accordo e compromesso tra i grandi spazi imperiali in cui il pianeta è diviso (…) più questo obbiettivo sembra farsi chimerico, anzi: essere apertamente avversato».

Così ora l’Europa si divide: ancora non si vede ma più ci si spingerà nel bellicismo anti-russo e meno ci sarà unità di intenti. A meno che l’Unione europea diventi una branca o un sottogruppo della Nato, tradendo sé stessa. E qui sorge la questione interna: a sentire i discorsi di molti leader europei oggi, l’Europa servirebbe solo come antemurale all’aggressione russa (e domani cinese?).

Si tratta della brutta copia delle posizioni americane, troppo poco per giustificare l’enorme costruzione unitaria iniziata nel 1957. Se la scelta è solo quella del contrapporsi ad un nemico assoluto, allora c’è già la Nato. La “reductio ad Nato” è il rischio che corriamo oggi come europei: si parla solo di armi e di spese militari, mentre tutto il resto sembra abbandonato, ciò che farebbe lo specifico europeo.

Popolari e socialisti

La crisi riguarda soprattutto i popolari del Ppe e la sinistra degli S&D, mentre le varie destre europee sapranno tirarsi d’impaccio giocando di rimessa anche se tra loro esistono vedute diverse. Nelle tradizioni politico culturali dei popolari e dei socialdemocratici dovrebbero esserci ancora i germi immunitari del “never again” che tuttavia al momento non si vedono. Per questo la diplomazia viene umiliata e ogni tentativo di dialogo è accusato di tradimento, esattamente come accadde nelle fasi antecedenti delle due guerre mondiali.

La guerra è presentata come un destino obbligato, una triste ma ineluttabile avversità. Anzi: molti si chiedono se gli europei saranno in grado di combattere un “conflitto ad alta intensità”, temendo che le virtù guerresche siano disperse in una vita di confort.

Chi conosce la storia sa che si tratta della retorica tipica di ogni ante-guerra. Alla fine c’è da scommettere che tale tensione rompa l’Europa: non sono molti gli europei pronti a ripiombare nel gorgo del “nemico assoluto” e della “guerra totale”. Meglio sarebbe tornare alle radici della costruzione europea per equilibrare le paure degli europei orientali con il buonsenso appreso negli sforzi di unità svolti in decenni di integrazione. È una sfida per il popolarismo tedesco: molto di ciò che accadrà dipenderà dalla Germania e dalla Cdu che tornerà a dirigerla.

Berlino ha dalla sua la resilienza dei partiti storici, una reazione al populismo da far invidia se non fosse per la temibile ascesa della destra estrema dell’AfD, tutta concentrata ad est. La spaccatura tra europei occidentali e orientali attraversa la Germania e la divide.

Cosa decideranno di fare i tedeschi? Se la scelta sarà per la narrazione del nemico assoluto avremo una guerra permanente in Europa, al di là delle posizioni americane. Se invece nella Cdu prevarrà la tradizione cristiano-democratica, l’Europa potrà salvarsi evitando il tutto militare. A ciò lavora Antonio Tajani, moderando le posizioni più belliciste.

A sinistra la partita si svolgerà in Italia (non bastano gli spagnoli): se nel Pd prevarrà la tradizione originaria socialista-democratica e cattolico-democratica, gli S&D potranno giocare un ruolo propositivo. Se invece prevalesse la spinta social-liberale intimidita dalle destre (vedi immigrazione o politica del lavoro), i socialdemocratici europei andranno a rimorchio. Anche a destra il dibattito resta acceso. La ricomposizione non è terminata con la nascita del gruppo dei Patrioti: la divaricazione sul conflitto rimane. Fuori da ogni politically correct – oggi grandemente in uso tra le leadership –, ai cittadini europei si porrà direttamente la domanda sulla guerra. Aspettiamoci sorprese: per i dirigenti sarebbe saggio ascoltare prima di farsi prendere in contropiede.

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