La presidente della Commissione europea con meno consenso accentrerà potere più che mai. Le riforme che gli europeisti agognavano saranno piegate a un’Ue che guarda sempre più verso destra e verso le grandi corporation. Persino i fondi nati per la coesione, per prevenire le disuguaglianze, potrebbero essere usati per rafforzare chi è già forte: il “von der Leyen 2” è il regno dei paradossi.

Potere sul tesoro

La squadra di von der Leyen dovrà interfacciarsi anzitutto con lei, che manterrà il più stretto controllo. Ma c’è qualcun altro con cui tutti, compreso Raffaele Fitto, dovranno tassativamente coordinarsi, come le lettere di missione prescrivono: Piotr Serafin, perché ha la delega al bilancio. E von der Leyen, con il commissario polacco come aiuto, ha grandi progetti per riformare il bilancio Ue.

Talmente grandi che da questo autunno circolano scenari stravolgenti, come quando una presentazione a uso interno è trapelata dalla direzione generale per il budget e si è potuto apprendere dell’ipotesi che le centinaia di programmi coi quali finora l’Ue ha finanziato gli stati membri possano essere strizzati dentro un unico grande piano. La mossa è stata soprannominata «la presa di potere» sul tesoro da mille e duecento miliardi di euro, da ritenersi ampliabile alla luce degli interessi maturati su Next Generation EU e del supporto all’Ucraina.

Il punto è pure chi e come deciderebbe quel piano. Von der Leyen sa che non può decidere tutto da sola, nonostante si accontenti del record di bassi consensi degli europarlamentari sul suo collegio (solo 370 voti a favore questo mercoledì). La presidente di Commissione ha sempre cercato i buoni rapporti coi governi (estrema destra di Giorgia Meloni inclusa) perché sa che serve il loro consenso (dunque quello del Consiglio) per stravolgere gli assetti. Lo scenario d’autunno era dunque quello di un grande e unico piano sì, da concordarsi coi governi nazionali e che seguisse un criterio, detto nella bolla brussellese «cash for reforms». Soldi in cambio di riforme: niente di nuovo in realtà; basti pensare, fuori dall’Ue, ai programmi del Fondo monetario internazionale: assistenza in cambio di politiche neoliberali.

L’altra faccia del Pnrr

Nel caso dell’Ue, il riferimento è in teoria il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ai tempi della pandemia, persino falchi e frugali avevano acconsentito a un piano di indebitamento comune, purché su direttrici concordate, come le transizioni verde e digitale. All’epoca quel piano nazionale portava con sé l’illusione di dare respiro alla spesa pubblica.

Le cose sono cambiate: da una parte ci sono molti dubbi (che diventano certezze negative se la Cdu di Merz vince) che altro indebitamento comune parta. Dall’altra il sistema “soldi per riforme” potrebbe trasformarsi in una gabbia neoliberale, specialmente se sintonizzato con piani di rientro dal debito e imperativi (“competitività”, “difesa”) tradotti in risorse pubbliche ai campioni industriali.

Non a caso alla vigilia dell’audizione di Fitto il Financial Times spifferava di fondi di coesione (sui quali lui ha la delega) da dirottarsi sulla difesa: se c’è un unico grande piano, la flessibilità diventa altro margine di manovra per la Commissione.

Il Comitato delle regioni è sul piede di guerra: non esclude vie legali. Il principio di sussidiarietà (come la coesione) è garantito dai trattati. Nel frattempo però la presidente studia già come centralizzare a Bruxelles le strutture. E dire che in precedenza il modo in cui ha gestito i negoziati con le corporation del farmaco – accentratore e opaco – le è valso l’etichetta di «malgoverno».

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