- Lunedì 30 gennaio sarà ufficialmente presentata al Viminale. Interverrà il capo della polizia Lamberto Giannini e il presidente nazionale dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo.
- Il presidente è l’ispettore Vittorio Berti, ancora in servizio: «Vogliamo restituire alla memoria nostra e del paese quello che noi per primi non conosciamo fino in fondo. Un debito che abbiamo con chi ha contribuito a fare di tutti noi quello che siamo oggi».
- Sono almeno duecento gli agenti morti nella lotta partigiana, a Roma, Napoli, Udine, Aosta. Anche nella Repubblica di Salò. Almeno cinquanta muoiono nei lager. Ma sono solo quelli di cui sappiamo.
«Siamo poliziotti in servizio e in quiescenza, fra noi c’è chi lavora in un commissariato, chi negli uffici investigativi. La sezione è nata un mese fa. Quello che oggi chiamiamo “progetto” all’inizio era una riflessione fra quattro o cinque colleghi sul fatto che ci era capitato di girare per l’Italia per servizio, e di vedere monumenti, targhe, piazze, giardini dedicati a colleghi morti dal ‘43 al ‘45, che noi per primi sconoscevamo».
La scelta del verbo è curiosa, più che ignorare indica il non voler riconoscere. A parlare è l’ispettore Vittorio Berti, in forza all’ufficio presidenziale della Polizia, quello che assicura i servizi al Quirinale. Porta la divisa blu da quando aveva 19 anni, ha lavorato nel Reparto Mobile, nei nuclei antisequestro, per quindici anni alla Direzione antimafia. È il segretario della prima sezione Anpi Appartenenti Polizia di Stato intitolata a Maurizio Giglio, 24enne poliziotto catturato dalla banda Koch, torturato e ucciso alle Fosse Ardeatine. Lunedì 30 gennaio questa particolarissima sezione dell’Associazione partigiani d’Italia sarà ufficialmente presentata alla Sala Conferenze del Viminale. Interverranno, fra gli altri, il prefetto Lamberto Giannini, capo della Polizia, il presidente nazionale dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo, e Mario Corrente, dell’Associazione Polizia di Stato. Il titolo della mattinata è il “progetto”: «Una memoria da costruire: i partigiani, i deportati e i Giusti della Polizia nella Resistenza al nazifascismo».
«Vogliamo restituire alla memoria nostra e a del paese quello che noi per primi non conosciamo fino in fondo», racconta Berti. «Conoscevamo figure come Giovanni Palatucci, commissario deportato a Dachau, e Giglio. Ma sconoscevamo le centinaia di azioni dei colleghi del tempo. È un debito che abbiamo con chi è venuto prima di noi e ha contribuito a fare di tutti noi quello che siamo oggi». «Quando abbiamo presentato il progetto all’amministrazione sapevamo che i vertici avevano già iniziato un loro percorso di restituzione della memoria, ma non sapevamo come poteva essere interpretata un’iniziativa autonoma di appartenenti alla polizia. Invece abbiamo trovato disponibilità e sostegno».
Fra i fondatori della sezione, un altro poliziotto “partigiano”, il vicecommissario Cosmo Bianchini, oggi in pensione, tra i fondatori anche del sindacato di polizia della Cgil e ora vicepresidente dell’Anpi di Rieti. Perché, spiega, «è arrivato il momento di ricostruire una storia sconosciuta ai più».
Polizia partigiana
«Conosciamo i nomi di 200 colleghi caduti per la lotta di liberazione. Di alcuni sappiamo la storia: i quattro che hanno perso la vita nelle giornate di Napoli sulle barricate con la cittadinanza; gli otto della Pai (la Polizia dell’Africa italiana, prima Corpo di Polizia Coloniale, che operò anche in Italia fra il 1943 e il 1945, ndr) che combatterono a Roma l’8 settembre a Ostiense e a Magliana». Proprio per la partecipazione agli scontri contro i tedeschi, il 21 settembre il colonnello delle SS Herbert Kappler ne fece arrestare e deportare a Mauthausen i vertici. «Il comandante morì dopo due mesi. Il suo più stretto collaboratore, il colonnello Galli, riuscì a scappare, tornò in Italia e si mise a disposizione delle formazioni venete del Grappa, ne divenne comandante, poi divenne comandante di tutte le formazioni partigiane del Veneto. La staffetta personale del colonnello Galli era la staffetta partigiana Gabriella», Tina Anselmi.
«Sono 50 i colleghi morti nei lager, tre i poliziotti fra gli italiani riconosciuti fra i Giusti: Palatucci, il commissario Angelo De Fiori e il commissario Canessa, riconosciuto solo nel 2007. La sua è una storia meravigliosa. Da giovane agente lavorava all’ufficio di frontiera, in Valtellina, salvò centinaia di persone aiutandole ad arrivare in Svizzera. Per anni non ha raccontato nulla. Aveva un fratello in un campo di concentramento e di certo se avesse consegnato gli ebrei lo avrebbero liberato. Non lo fece».
«In Italia abbiamo 13 pietre di inciampo per poliziotti. Nove a Udine, posate il maggio scorso alla presenza del capo della polizia. La prima posata in Valle d’Aosta è in memoria del commissario Renzi, responsabile della scorta di Maria José e del marito, il principe. I due, poco prima dell’8 settembre lo avvisarono che stavano per scappare in Svizzera. Gli proposero di seguirlo. Lui manifestò il rifiuto. Provarono a convincerlo offrendogli di portare anche la moglie. Lui è rimasto ad Aosta e si è messo a disposizione delle formazioni partigiane. Ma fu poi scoperto, è morto a Dachau».
«L’8 settembre crea una frattura non solo fra Nord e Sud del paese ma anche nei corpi della polizia: al sud resta il Corpo di guardie di pubblica sicurezza, a Roma c’è il Comando della Pai, i cui vertici vengono decapitati, come dicevo, e sostituiti con uomini fedeli ai tedeschi. Ma molti agenti continuano a fornire informazioni ai partigiani. Hanno le macchine con il lampeggiante, possono girare senza che nessuno li fermi, portano in salvo persone, forniscono viveri, documenti falsi. Al Nord viene creato il Corpo della Polizia repubblicana di Salò: ma persino lì centinaia di colleghi collaborano con la Resistenza».
Un messaggio ai nuovi
Chiediamo se ha incontrato ostilità. «Era il timore che avevamo anche noi. I fatti ci hanno sorpresi. Abbiamo aperto una pagina su Facebook, ci seguono 800 persone, molti sono colleghi. Spieghiamo che facciamo un’azione di ricostruzione storica, senza un risvolto politico. E che la lotta partigiana fu un coagulo di persone diverse che si unirono contro il nazifascismo». E una sezione Anpi è anche un messaggio alle nuove leve: «Speriamo che questo entrare della memoria nei nostri luoghi di lavoro contribuisca ad arricchire i nostri giovani colleghi. A far capire che oggi come allora e nel futuro, il nostro ruolo non è stare da una parte ma di difendere la democrazia. La nostra è una missione in primis di prevenzione e di tutela dei diritti, anche quelli del reo. Non siamo giustizieri, non facciamo le ronde».
Da ragazzo Berti è stato nel Reparto Mobile, erede della Celere, bestia nera delle piazze degli anni Settanta: «Vede siamo 98mila persone e come ovunque c’è chi sbaglia, deve pagare, e se porta una divisa è giusto che paghi particolarmente. Ma la struttura è sana, da anni si lavora a fondo su quest’aspetto. Arrestare una persona con un’azione di forza può comportare problemi, non è sempre facile vincere una resistenza, per questo serve professionalità».
Storie da raccontare
«C’era già da tempo una sezione Anpi del ministero della Difesa», spiega con orgoglio Fabrizio De Sanctis, presidente dell’Anpi di Roma, «ogni 7 ottobre deponiamo una corona a Porta San Paolo per ricordare la deportazione di migliaia di carabinieri, a Fiumicino abbiamo una sezione intitolata a Salvo D’Acquisto, il vicebrigadiere che si è fatto fucilare nel 1943 per salvare un gruppo di civili. I valori della Resistenza debbono vivere anche nelle Forze armate della Repubblica nata dalla lotta antifascista, la cui fedeltà alle istituzioni dà umanità al rispetto dei valori democratici nel loro lavoro. Per questo è sacrosanta la ricerca per mettere in luce le tante storie di eroismo dimenticate»
Le storie della polizia partigiana che Berti vuole raccontare. Come «quella dell’evasione di Sandro Pertini e di Giuseppe Saragat», dal carcere di Regina Coeli a Roma: «Li aiutò un tenente della Pai, Vito Majorca. Quella di una giovane guardia triestina di 25 anni, Giovanni Babuder. Decide di entrare nelle formazioni partigiane, prende il nome di Branko, partecipa a varie azioni però viene arrestato e deportato nel lager di Langestein in Germania. L’11 aprile 1945 gli alleati liberano il campo. Ma lui muore il 12 aprile. Ripenso spesso a quel suo unico giorno di libertà. Non sapremo mai come lo ha vissuto».
Dida: Milano, 6 maggio 1945, da sinistra Stucchi, Parri, Cadorna, Longo e Mattei, i capi del Cln Alta Italia che nominò i prefetti dopo la Liberazione Foto Archivio Storico LaPresse
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