Non è un fenomeno neutrale, ma l’indice privilegiato del conflitto tra conservazione e mobilitazione del potere. Quando vince la conservazione, prevalgono la rassegnazione e il disincanto. Quando c’è ancora speranza di mobilitare la società, spezzando i suoi equilibri consolidati, torna la partecipazione. Se la sinistra diventa un gruppo ristretto di persone che vince, la sinistra perde
Di fronte all’astensionismo, siamo soliti mettere in campo due modelli interpretativi. Il primo è un po’ cinico e corrisponde più o meno al modo sbrigativo o addirittura strafottente con cui i partiti di destra risolvono la questione (ciò che ha fatto recentemente Bocchino in un programma televisivo, provocando la sacrosanta reazione di Cacciari). C’è un implicito e paradossale storicismo in questa posizione.
L’astensionismo è un fenomeno politico che manifesta una necessità della storia: quel che ci rimane da fare è semplicemente riconoscere che la democrazia corre veloce verso il modello americano e non si può far nulla per modificarne gli esiti, del resto noti e intenzionalmente teorizzati da quasi cinquant’anni. È uno dei tanti paradossi della democrazia contemporanea: un sempre maggior numero di persone ha accesso a una gigantesca mole di informazioni, ma a quest’estensione del sapere politico corrisponde una progressiva diminuzione della quantità di persone che credono nel rito delle elezioni.
Il secondo è un po’ paternalista e spesso contagia i partiti di sinistra. Pronti a drammatizzare il dato dell’astensionismo quando i loro risultati elettorali sono insoddisfacenti e a minimizzarne l’importanza quando invece si possono ritenere soddisfatti (come sta accadendo in queste ore per alcuni partiti). In ogni caso l’astensionismo sarebbe un segno di una crisi della coscienza democratica dei cittadini. Non una loro opzione ragionevole e piena di buoni motivi, ma una scelta irresponsabile e addirittura offensiva nei confronti della memoria di coloro che sono morti per permetterci di esercitare il diritto di voto. Chi si astiene, sbaglia comunque.
Ecco, a me pare invece che sia giunto il momento – oltrepassata la soglia simbolica della metà degli aventi diritto al voto – di uscire da questi due modelli un po’ superficiali, per riconoscere infine che l’astensionismo non è un fenomeno neutrale ma piuttosto riguarda in modo particolare il campo della sinistra. La tesi è chiara: laddove s’impone l’astensionismo, la destra compie uno dei suoi compiti fondamentali, la sinistra invece fallisce.
Non è difficile spiegare perché alla destra l’astensionismo non desti scandalo. Al di là della sua rappresentazione populista, uno dei compiti storici della destra è quello di mettere in sicurezza le diseguaglianze sociali ed economiche, preservando i privilegi dei pochi contro i diritti dei molti. La preferenza elitista è assai nota e descrive bene l’intento di minimizzare le conseguenze politiche e sociali delle elezioni democratiche. Una doppia élite diventa l’obiettivo da perseguire: l’élite ristretta delle oligarchie che dominano, ma anche l’élite dei cittadini che ancora votano, magari spinti esclusivamente da moventi individuali (questo “elitismo del basso” che riduce i cittadini a pochi individui interessati soltanto a sé stessi e ai propri interessi è uno dei sogni della destra neoliberale).
La democrazia è mobilitazione
Più interessante è invece spiegare perché l’astensionismo è una sconfitta della sinistra, anche quando non perde alle elezioni. Tutti siamo soliti convenire sul fatto che la democrazia sia partecipazione. Ma detta così non vuol dire poi molto. Più propriamente, la democrazia è mobilitazione: il momento elettorale contiene in sé la straordinaria conquista di aver reso il potere contendibile per tutti, non solo per quelli che già ce l’hanno da tempo o che sono in condizione di privilegio strutturale, economico e sociale. Non è per questo che ancora ci emozioniamo quando andiamo alle urne? Non per il fatto in sé, ma perché in quel momento siamo uguali ai “potenti” quanto al potere che possiamo esercitare. Siamo tutti uguali.
La rivoluzione francese vale ancora e ogni elezione dovrebbe ricordarcelo: il potere può passare di mano, coloro che governano possono essere estromessi, coloro che non hanno avuto alcuna parte di governo possono improvvisamente occupare il posto vuoto del potere.
Che accade quando i cittadini scelgono di non partecipare? Accade che essi non credono più nella funzione sovversiva della democrazia. Che partecipare, letteralmente, «non serve a nulla, non cambia niente». La crisi di partecipazione è dunque una crisi di mobilitazione, non solo di rappresentanza. È ovvio che l’astensionista non si senta rappresentato, ma la sua delusione consiste nel fatto che ogni rappresentanza possibile è in effetti inutile. La politica non cambia più le cose. Mentre la destra coltiva ancora il culto della necessità della storia, la sinistra ha abbandonato il mito politico del cambiamento e del progresso.
A sinistra invece la partecipazione diffusa non ha un semplice valore formale ma è sostanziale. Perché la sinistra dovrebbe avere nel proprio statuto precisamente la necessità di distribuire il potere, non di concentrarlo sempre nelle stesse mani. Nella celebre intervista sulla questione morale, Berlinguer individuava come «seconda diversità» della sinistra precisamente questa esigenza di una democrazia in grado di mobilitare la società, spiazzando i rapporti di forza consolidati: «Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni».
Io penso che la «diversità democratica» della sinistra dalla destra debba essere ancora questa: far sentire agli elettori di poter contare nelle decisioni e di poter cambiare, grazie a quel gesto, le proprie condizioni. Al contrario, la crisi dei suoi partiti si può far risalire precisamente alla fissazione per la conservazione del potere e alla diffidenza nei confronti della sua «mobilitazione».
Ecco, a me sembra che non possiamo rassegnarci all’astensionismo, come ormai siamo tentati di fare. Esso è l’indice privilegiato del conflitto tra conservazione e mobilitazione del potere. Quando vince la conservazione, prevale la rassegnazione e il disincanto. Quando c’è ancora speranza di mobilitare la società spezzando i suoi equilibri consolidati, torna la partecipazione.
Per questo vorrei che le analisi sui dati elettorali recepissero non solo la relativa soddisfazione per alcuni risultati ottenuti, ma anche la preoccupazione per la crisi della partecipazione. La sinistra non può sopravvivere a sé stessa come insieme di persone che non si pone come obiettivo quello di mobilitare e diffondere il più possibile il potere. Se la sinistra diventa un gruppo ristretto di persone che vince, la sinistra perde.
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