Mesi e mesi di confronti in parlamento e di proteste nel paese per arrivare a un testo sull’autonomia differenziata che, ancora oggi, è l’esempio dell’improvvisazione al potere. Senza una definizione esatta della spesa né un percorso chiaro verso l’attuazione delle norme. E con un cortocircuito: la devoluzione delle funzioni alle regioni passa per l’accentramento dei poteri di scelta a Palazzo Chigi a colpi di dpcm.

Il servizio dossier della Camera ha passato ai raggi X il disegno di legge di Roberto Calderoli. «Andrebbe chiarito con riferimento a quali specifiche risorse debba essere garantita l’invarianza finanziaria che la norma assicura alle altre regioni all’esito della conclusione delle intese», viene messo nero su bianco, seppure con toni garbati e istituzionali, nel testo predisposto dai tecnici di Montecitorio. La traduzione è che manca la cifra del reale impatto della riforma sulle casse pubbliche. L’ennesima bocciatura di un organismo indipendente.

Direzione ignota

Intanto l’autonomia ha fatto un passo in avanti verso l’approvazione definitiva. L’aula di Montecitorio ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità, dopo la pausa elettorale si potrà andare avanti. Il cammino procede, seppure a rilento, verso una direzione ignota. E quindi con un possibile salto nel buio per il paese. «Qualcuno può spiegarci da dove prenderanno le risorse per garantire i Lep? Sono mesi che lo chiediamo, l’unica cosa che abbiamo ascoltato è il silenzio del governo», dice a Domani il deputato del Pd Marco Sarracino, in prima linea contro la riforma.

Il dossier della Camera evidenzia una serie di nodi ancora da sciogliere, a cominciare dal trasferimento dei poteri dello stato alle regioni: «I procedimenti delineati, nonostante i molteplici richiami alla legge di contabilità e finanza pubblica, presentano profili meritevoli di approfondimento, anche dal punto di vista interpretativo, sia in ordine al controllo parlamentare sulle risorse oggetto di effettivo trasferimento sia riguardo alle modalità di finanziamento delle funzioni trasferite alle regioni».

Nel dettaglio le intese che si dovranno sottoscrivere tra enti locali e stato «non determinano le risorse da trasferire, ma si limitano a definire i criteri per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative, mentre i beni e le risorse oggetto di trasferimento sono determinati successivamente con un dpcm». Insomma, c’è la cornice, ma manca il contenuto. I problemi attengono poi al sostanziale esautoramento del parlamento rispetto all’attuazione delle norme nel concreto. Viene sottolineata la «mancanza di un coinvolgimento delle camere nella procedura di determinazione dei Lep tramite dpcm, nelle more dell’esercizio della delega, e la coesistenza comunque di due distinte procedure per procedere a tale determinazione appaiono meritevoli di approfondimento».

Federalismo senza soldi

E se da un lato il servizio studi della Camera manifesta tutti i dubbi sull’autonomia, l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), in audizione a Montecitorio, ha evidenziato una serie di criticità sull’attuazione del federalismo fiscale, misura gemella della riforma del governo Meloni. La più importante è un tema di stretta attualità: le risorse agli enti locali, che stanno per subire una riduzione. Il decreto Giorgetti-Piantedosi, che toglie ai sindaci un miliardo in cinque anni, è stato solo rinviato per evitare polemiche a pochi giorni dalle elezioni.

Fatto sta che «sia le province e le città metropolitane sia i comuni hanno pressoché esaurito gli spazi disponibili per lo sforzo fiscale», annota l’Upb. Le colpe sono dei «tagli operati nel decennio scorso per il concorso degli enti al risanamento della finanza pubblica» ma anche del «ridimensionamento delle basi imponibili prodotto dagli interventi di riforma sulla tassazione immobiliare e sull’Irpef per i comuni e dall’evoluzione del parco automobilistico per le province e le città metropolitane».

A chiudere il cerchio «la difficoltà di riscossione dei tributi che si manifesta in particolare in ambito comunale». Il senso è che bisogna aiutare le amministrazioni locali, al contrario di quanto prevede il governo Meloni.

La confusione sulle risorse e sul Mezzogiorno si è palesata poi al Senato sugli emendamenti al decreto Coesione. Sul fondo per le infrastrutture nel Mezzogiorno, già oggetto del taglio da 3 miliardi e mezzo da parte del governo, la Lega entra in rotta di collisione con il decreto firmato da Raffaele Fitto ed esaltato da Giorgia Meloni. I leghisti, con la proposta di Massimo Garavaglia (sottoscritta da altri colleghi di partito), chiedono il ripristino della vecchia formulazione del testo, senza dare priorità al Sud. Un ritorno al passato per la Lega. Che sembra il prequel dell’attuazione dell’autonomia.

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