All’indomani del sì definitivo al ddl Calderoli, il fronte del no all’Autonomia differenziata comincia subito a organizzarsi. La chiamata generale alle armi della manifestazione di martedì a Roma è fresca, l’idea di tutti è battere il ferro finché è caldo. Tanto più che in mattinata Repubblica anticipa un documento di lavoro della Commissione europea, secondo cui «la devolution di ulteriori competenze alle regioni italiane comporta rischi per la coesione e le finanze pubbliche del Paese» e anche «per le disuguaglianze tra le regioni». Un brutto colpo per Giorgia Meloni, proprio mentre è in piena trattativa sulla presidenza della Commissione.

Le opposizioni si caricano. I Cinque stelle si appellano al Colle: chiedono a Sergio Mattarella di «valutare l’opportunità di esercitare la prerogativa costituzionale» del «rinvio presidenziale di cui all’articolo 74 della Costituzione». Al Quirinale i provvedimenti vengono esaminati «scrupolosamente» alla luce delle norme che regolano l’esame del presidente, come sempre. Ma, alla luce dei precedenti, la mancata firma in questo caso sembra difficile. Invece è certo che, appena il testo sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, il Coordinamento per la democrazia costituzionale farà partire la raccolta di firme su un quesito referendario per l’abrogazione della legge.

Attenzione, il coordinamento ha un curriculum di peso: nel 2016 è stato il primo motore della raccolta delle firme contro la riforma Renzi-Boschi; all’epoca il Pd era per il sì (tranne l’area dalemiana e bersaniana). Oggi il Pd è pronto a sostenere la raccolta di firme.

Renzi si imbuca nel fronte

Non solo: colpo di scena, ieri si è infilato nel fronte del No proprio Matteo Renzi: «Per la prima volta dal settembre 2022 la Meloni ha fatto un errore tattico», scrive sulla sua Enews, «ha anticipato i tempi del referendum sull’autonomia» dunque se si raccolgono le firme entro il 30 settembre e si va a votare nella primavera del 2025, «e se scatta il quorum, il governo va a casa. Ma anche se non scatta, l’esecutivo offre il primo break point alle opposizioni».

Al netto del vaglio costituzionale al quesito – non scontato, lo vedremo fra poco – la scelta di Renzi è spericolata: se il referendum fosse ammesso, finirebbe nella stessa tornata del quesito contro il Jobs Act, sul quale la Cgil ha già raggiunto le 500mila firme necessarie alla presentazione. Con l’effetto paradosso che Renzi finirebbe per concorrere al quorum anche del referendum “anti Renzi”.

Ma quello del quorum del referendum abrogativo (quello costituzionale non ha quorum) è un tema spinoso, da sempre: servono oltre 25 milioni di elettori. Comunque si organizzano i banchetti: il comitato è collegato alla macchina della “Via Maestra”, la rete delle associazioni della Cgil, già in piena attività sui quattro referendum sindacali.

Anche il Pd è in pieno attivismo, in linea con il passo di carica che ha impresso la segretaria. Nessun cedimento alla scuola “minimalista”, cioè di quelli che, anche a sinistra, considerano l’approvazione della legge un fatto solo simbolico, ma inutilizzabile prima che vengano finanziati i “Lep”, i Livelli essenziali delle prestazioni. In realtà possono partire da subito le richieste di accordi da parte delle regioni, almeno per le materie “non Lep”. Dunque non c’è tempo da perdere.

Spiega il senatore Alessandro Alfieri, responsabile riforme Pd: «Ci muoveremo con tutti gli strumenti democratici, lavorando con tutte le opposizioni con cui abbiamo fatto fronte comune in parlamento, coinvolgendo le associazioni in un fronte amplissimo. Questi giorni sono utili per ragionare insieme a tutti gli strumenti con cui opporsi all’autonomia, dal referendum al ricorso alla Consulta da parte dei consigli regionali».

Per chiedere il referendum abrogativo c’è infatti anche la strada della richiesta di almeno cinque consigli regionali, che devono approvare e depositare lo stesso quesito entro il 30 settembre. Il centrosinistra governa in Puglia, Campania, Toscana, Sardegna e Emilia-Romagna: proprio cinque. Il guaio però è che in Emilia-Romagna martedì e mercoledì si svolgeranno le ultime sedute del consiglio prima delle dimissioni di Stefano Bonaccini, eletto europarlamentare.

Da lì i poteri passano alla sua vice Irene Priolo, ma solo per la normale amministrazione. Bonaccini era pronto a chiedere il referendum, «ma non ci sono i tempi per far approvare un testo condiviso con altri quattro Regioni», spiega Davide Baruffi, sottosegretario alla presidenza della giunta (e responsabile Enti Locali Pd), «Proporremo però all’assemblea un ordine del giorno che stigmatizza il ddl Calderoli e esprime l’intenzione di aderire a tutte le iniziative atte a abrogarlo».

La trappola di Calderoli

C’è poi un interrogativo sull’ammissibilità del quesito. Il ministro Calderoli ha infatti collegato la sua riforma alla legge di bilancio. Un trappola, forse non casuale: la Consulta potrebbe decidere che questo collegamento fa ricadere il testo nella casistica delle leggi per cui è precluso il referendum abrogativo. «Ma questo collegamento è con invarianza di spesa. Certo, la Corte dovrebbe valutare se incide sul bilancio dell’anno in atto o successivamente», spiega il costituzionalista Massimo Villone e presidente del Coordinamento per la democrazia costituzionale.

Calderoli ha lasciato sul campo l’ultima mina? «Calderoli innanzitutto ha scelto un modo per far discutere la legge anche durante la sessione di bilancio, dunque speditamente. E poi probabilmente anche per rendere più difficile attivare la via referendaria. In ogni caso c’è il tema del tempo: l’autonomia può partire domani, il referendum nella migliore delle ipotesi non arriva prima della primavera 2025: nel frattempo potrebbe partire i procedimenti di intesa con qualche regione. Dunque parta la raccolta di firme, ma intanto spero si attivi qualche regione con un ricorso diretto alla Corte Costituzionale».

La palla torna dunque alle regioni. I presidenti Giani, Emiliano e Todde (Toscana, Puglia e Sardegna) sono pronti a dare battaglia. Ma il presidente campano Enzo De Luca sta un pezzo avanti: è favore del referendum, ma intanto da mesi ha messo al lavoro il suo ufficio legislativo per studiare il ricorso alla Consulta. Chi lavora con lui assicura: «Sicuramente si farà».

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