Pubblichiamo stralci della prefazione di Pier Luigi Bersani al libro di Stefano Fassina “Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord” (Castelvecchi).

Sin dalla definizione del programma per le elezioni del 2022, i partiti della coalizione di centrodestra a sostegno del governo Meloni hanno puntato a realizzare modifiche sostanziali alla nostra impalcatura costituzionale, quindi al funzionamento e alla qualità della nostra democrazia.

Da un lato, il cosiddetto presidenzialismo, declinato poi in “premierato”, attraverso modifiche apparentemente circoscritte alla nostra Carta fondamentale, ma di impatto profondo e radicale sui suoi complessi equilibri. Dall’altro lato, l’interpretazione estrema, dirompente, dell’autonomia differenziata attraverso l’approvazione di leggi ordinarie.

Si arriva all’approvazione di tale decisivo testo con passaggi sostanzialmente blindati al Senato e alla Camera, nell’indifferenza dei gruppi politici della maggioranza, non soltanto alle proposte emendative delle minoranze, ma ai richiami delle massime istituzioni indipendenti, alle riserve delle rappresentanze economiche e sociali e alle osservazioni argomentate di un amplissimo arco dottrinale di costituzionalisti.

Sarebbe sbagliato sottovalutare le iniziative in corso. Si tratta dell’intenzione di creare una cesura nella vicenda dell’Italia repubblicana. Una rottura rifondativa. Infatti, cambierebbe radicalmente l’impianto della Repubblica parlamentare, fino ad essere stravolto. Insomma, la posta in gioco è altissima. Il lavoro di Stefano Fassina ci aiuta a prenderne consapevolezza.

Effetto distruttivo

Prima di venire alle conseguenze dell’autonomia differenziata, è utile ricordare, almeno a grandi linee, il contesto nel quale si arrivò alle modifiche del Titolo V della Costituzione. È un fatto che nel 2001 ci fosse anche nel centrosinistra una confusa suggestione federalista e il tentativo di assorbire le pulsioni dissociative espresse dalla “Lega nord per l’indipendenza della Padania”.

Tuttavia, ricondurre tutto a questa origine e a un’operazione strumentale non è corretto. Una discussione più precisa e matura potrebbe consentire di cogliere meglio le intenzioni del legislatore e riconoscere il senso politico ed economico di differenziare le competenze legislative regionali su alcune materie in ragione delle condizioni specifiche, oggettive e riconoscibili, di ciascun territorio.

Nell’assenza di un quadro razionale di limitazione delle materie trasferibili alla potestà legislativa esclusiva delle regioni, è innegabile l’effetto devastante della “riforma” in termini di ulteriore allargamento del divario tra sud e nord dell’Italia.

È certamente un aspetto crucialissimo, ma partire da lì o fermarsi lì è palesemente riduttivo. Infatti, ancora prima degli effetti di redistribuzione territoriale e sociale delle risorse pubbliche, va evidenziato che la “riforma” determina un effetto sistemico distruttivo. Non è un caso che il disegno dell’Autonomia differenziata à la Calderoli non abbia nessun paragone possibile con esperienze federali o autonomistiche o di regionalismo asimmetrico costruite in altri Stati, in Europa e altrove.

Conseguenze paradossali

In tale quadro normativo, è agevole per Fassina documentare le conseguenze paradossali dell’Autonomia differenziata in termini di maggiori oneri amministrativi e indebolimento competitivo che ne deriverebbero, non solo per l’Italia nel suo insieme, ma per ogni singola impresa, per lavoratori e lavoratrici, per le famiglie, tanto del nord quanto del sud.

Si genererebbero su vari piani: sia là dove le politiche pubbliche pretendono una proiezione internazionale; sia là dove si alzerebbero confini di fatto insormontabili per necessarie operazioni di acquisti, produzioni e vendite ultra regionali; sia per gli effetti dumping fra le regioni; sia per l’aggravamento del groviglio normativo e burocratico; sia per l’impatto sul nostro elevato debito pubblico e, inevitabilmente, sul costo del credito e quindi sui redditi di lavoratori e lavoratrici e famiglie, oltre che imprese.

Tali valutazioni, come riporta l’autore, sono presenti anche nelle audizioni sul disegno di legge Calderoli lasciate agli atti dalle principali associazioni di datori di lavoro, piccole imprese, lavoratori autonomi e sindacati.

A fronte della deriva che ho appena ricordato, si invoca ritualmente l’arrivo, dopo due decenni di vana ricerca, dei cosiddetti Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. È importante che Fassina, anche qui con il supporto delle osservazioni della Banca d’Italia e dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, oltre che delle analisi più tecniche e semiclandestine della stessa Commissione Cassese, ne documenti la vera funzione: fare da foglia di fico alla reale natura dell’operazione Autonomia differenziata.

Fermare la deriva

Bisogna fermare questa deriva, tornare alla ragione e fare qualcosa di serio. C’è un fondamento autonomistico nel nostro sistema istituzionale e politico. Lo confermano anche i passaggi del dibattito per la scrittura delle norme sulla forma di stato, svolto all’Assemblea costituente.

Nel primo capitolo del libro, Fassina riproduce alcuni passaggi dei nostri più autorevoli “padri” espressione dell’intero spettro parlamentare. Sarebbe, quindi, assurdo e deleterio anche soltanto tentare di arretrare su improbabili centralizzazioni ministeriali. La sussidiarietà è valore imprescindibile.

Certamente, le autonomie territoriali evidenziano problemi. Sono urgenti interventi di razionalizzazione di competenze e risorse. Il dramma, tuttavia, è che si è proceduto e si vuole continuare a procedere sempre a compartimenti stagni. Si affronta la questione, per sua natura sistemica, mettendo mano in modo dissociato ora a questo ora a quel versante delle istituzioni di governo della Repubblica. Non può funzionare.

Non può esistere una indispensabile messa a punto del sistema delle autonomie senza uno sguardo che le consideri nell’insieme e cioè nelle relazioni fra loro e fra loro e lo stato nazionale. Tra tante bicamerali che si improvvisano, è mancata e continua a mancare quella più importante. Quella, cioè, che dovrebbe procedere a una rilettura del sistema delle autonomie. Senza uno sforzo del genere le manderemmo alla deriva fra impulsi e velleità di centralizzazione e fughe in avanti disgregatrici.

Attenzione anche ai baratti politici. L’elezione diretta del capo del governo non compenserebbe la perdita di regia e controllo nazionale di materie e entrate fiscali essenziali. Andremmo, al contrario, tutti a fondo, in una fase storica dove ritorna necessaria e decisiva la funzione di governo dell’economia. È finita la stagione del fai da te dei mercati.

L’illusione del fai da te delle regioni accentua la deriva. Fassina si sofferma, infine, su questioni crucialissime. Si riferiscono all’orizzonte europeo, a policy e riforme rivolte all’allentamento dei “vincoli interni” e dei “vincoli esterni”: condizionano e incidono anche sulle regioni del nord.

Entrano in tensione. Sono questioni e proposte decisive per invertire il declassamento del nord. Meriterebbero davvero un confronto serio e impegnativo. Invece, segnalano la distanza siderale fra quello che si dovrebbe discutere e quello che siamo costretti a discutere.


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