Se chiedi a Pier Luigi Bersani perché Enrico Berlinguer è un’icona anche per le nuove generazioni, digiune di comunismo e di Pci – esempio: la segretaria del Pd Elly Schlein ne ha voluto stampare gli occhi sull’ultima tessera del partito, ha chiuso la campagna elettorale a Padova, nella piazza dell’ultimo drammatico comizio, e lo cita spesso, anche se sono solo gli anziani a coglierlo –, lui risponde che è vero.

Di lui è passata «l’idea di una figura nobile della politica, ma c’è di più» ed è quel suo «farsi ascoltare dai giovani», e «non si capirebbe Berlinguer se non si capisce che lui arriva con gli anni ’60, quando in Italia e nel mondo una nuova generazione comincia a pretendere di essere protagonista», e di questa generazione lui riconosce «la politicità e l’autonomia». Parla anche di sé: a fine anni Settanta si iscrive al Pci in arrivo dalla sinistra extraparlamentare, rispondendo all’invito «entrate dentro e cambiateci». Lo stesso invito che lui oggi rivolge ai giovani.

L’occasione è, nel suo genere, unica. Il Museo civico archeologico di Bologna, con l’associazione Berlinguer, la Fondazione Duemila e il Centro studi Renato Zangheri, hanno chiesto all’ex segretario Pd di essere cicerone per un giorno alla mostra I luoghi e le parole di Berlinguer. Prenotazioni aperte e chiuse subito per sold out. Racconta di un segretario del Pci che «prende appunti» a Salerno di fronte ai responsabili degli aiuti ai terremotati dell’Irpinia, fra i quali un giovanissimo Bersani, di un Berlinguer che «ha la capacità di percepire istintivamente, anche con la testa, dei sentimenti delle nuove generazioni».

Che è poi la dote che Bersani riconosce a Schlein. «Oggi i giovani che si interessano di politica, hanno urgenze che sono gli interrogativi del mondo: il clima, le immigrazioni, la pace e la guerra, i diritti. Ma manca la credibilità e la forza di un partito. Questo loro vedono in Berlinguer. Vorrei un partito che dice che ribellarsi è giusto, cari ragazzi, al netto della violenza che distrugge ogni buona ragione, se c’è qualcosa che non vi va, fatevi sentire».

Nella sinistra italiana, e nel Pd di Schlein, intravede una svolta?

Vedo un movimento in Francia, Spagna, Gran Bretagna. Ma c’è molto da fare. In Italia ancora l’opposizione non riesce a interpretarlo bene: ma la potenzialità c’è. Bisogna cogliere quest’attimo e rendere più visibile la proposta di alternativa. Schlein fa bene a puntare sulle cose che uniscono, a non cadere nel battibecco. Abbiamo davanti la battaglia per il referendum contro l’autonomia differenziata, sarà dura ma se metti assieme movimenti, associazioni, partiti e gente varia, verrà naturale farlo anche per la sanità e per gli altri temi comuni.

Serve un quorum monumentale. Il rischio è perdere e fare un regalo alla destra?

Il rischio c’è, ma dovremmo lasciarli fare? La legge Calderoli c’è già. E che allarghi le diseguaglianze lo capisce anche un bambino. Il punto è che l’Italia diventa un paese Arlecchino, con sottosistemi con competenze à la carte: una regione ne prende ventitré, l’altra quindici, l’altra nessuna. Resterebbe solo una cosa da fare: si chiama Emanuele Filiberto e gli si dice di richiamare in servizio Cavour e Garibaldi.

Al Nord però circola l’idea che l’autonomia conviene.

Falso. Basta vedere i tassi di crescita degli ultimi vent’anni: se cresce il Sud cresce il Nord. Quando al Sud si fanno le fabbriche, il Nord vende i macchinari. Ma poi per fare un’autostrada, o un gasdotto, si moltiplicheranno le richieste ai sistemi autorizzativi. Al Nord piuttosto può prevalere l’idea del “non mi espongo”. E invece bisogna snidarli. Serve un incontro con gli industriali a cui chiedere: ma sul serio credete che l’autonomia differenziata vi sia utile?

Dai comitati per il referendum nascerà il fronte popolare all’italiana?

I partiti devono dare il messaggio iniziale, dire quattro cose su cui non si molla. Ma la politica non basta, ci vuole una reazione civica, morale. Non servono baracchini burocratici, ci vorrebbero comitati per l’alternativa, in tutta Italia, perché i partiti non riescono ad accogliere tutto quello che si muove. Accendiamo i giovani. Bisogna essere unitari e stare più larghi di come facciamo ora.

Anche Melénchon ha fatto la desistenza, perché la sinistra italiana fatica tanto?

Anche in Francia la sinistra, quanto a divisioni e contrapposizioni, non scherza. Mélenchon ha saputo portare al voto persone socialmente in difficoltà, una parte di quelli delle banlieue, radicalizzando alcuni temi, anche con la demagogia. Ma non c’è bisogno di essere demagogici per essere radicali, basta dire cose riguardano la vita della gente, a partire dalle più semplici. A me ancora mi fermano per strada perché si ricordano la portabilità dei mutui. Era una scelta radicale, le banche ci urlavano contro. I ricchi devono pagare le tasse. L’ultimo provvedimento fiscale, il concordato preventivo, va oltre il pensabile: un forfait al basso. Il messaggio è: hai evaso fin qui, ti faccio evadere di più. Bene, allora dico: vogliamo fare il fisco amico? Togliamo la ritenuta alla fonte, facciamo tutti la dichiarazione dei redditi.

Il governo va contro la Ue per non mettersi contro i balneari?

Il corporativismo porta a sbattere anche le categorie che si pretende di difendere. Se invece di discutere sì o no alle gare, si fosse discusso “gare come” non avremmo avuto questi problemi. Ma è un’ovvietà che da un governo del genere non ci si possa aspettare nulla di autenticamente liberale.

Torniamo a sinistra. In Francia c’è Mélenchon, in Italia c’è Conte: diserterà il fronte von der Leyen contro i nazionalisti?

Io non sono appassionato di von der Leyen, ma sarebbe singolare se di fronte alla possibilità che salti tutto, mancassero quei voti lì. Ma non dobbiamo lasciare tutti gli spazi critici solo alla destra. Come sulla pace e sulla guerra. Se le opinioni pubbliche diventano tiepide contro l’aggressore russo è anche perché quelli che giustamente stanno con l’aggredito parlano solo di armi.

La Nato ha deciso di potenziarle gli euromissili a corto raggio a Vicenza, e a lungo raggio in Germania. A un ex Pci ricorda qualcosa?

Un messaggio da Guerra fredda. Sono per il sostegno a Kiev, ma se mi si dice che ora rafforziamo gli schieramenti missilistici fra Europa e Russia, finirò per fare un giro a Vicenza anch’io. Vogliamo andare verso una guerra mondiale? Chiudersi non è una risposta.

Quindi meglio che vinca Trump?

No, e secondo me nessuno punta davvero su Trump, perché indebolisce la leadership degli Usa, e quando una leadership si indebolisce, ne può uscire anche una reazione aggressiva.

Orbán è il referente di Trump in Europa: ha fregato Giorgia Meloni?

A Meloni è scoppiata la bolla della propaganda. Raccontava che avrebbe condizionato la Commissione, e avrebbe avuto la leadership della destra europea. E secondo lei quelli aspettavano che arrivasse lei a comandarli? Meloni non può. Orbán sì, perché ha in testa una cosa chiara: fare la ControEuropa. Non sta visitando i leader mondiali per parlare di pace, ma a far vedere che c’è un’altra Europa possibile, quella della democrazia illiberale. Meloni lo pensa, ma non può dirla così, per legittimarsi si è imprigionata all’atlantismo. In Europa le procedure per sbattere fuori Orbán ci sono: quando tireremo una riga? Sono evidenti le lesioni al processo democratico. E ha in mano tutti i giornali e le tv ungheresi.

Anche Berlusconi controllava tutte le nostre tv, anche pubbliche. Gli hanno intitolato un aeroporto.

I lombardi hanno quello scrittorucolo di Alessandro Manzoni, ma non ha fatto Milano due e neanche il presidente del Milan.

Insomma, Meloni ha fallito?

In Europa sarà costretta a una posizione intermedia, e con il cappello in mano, prenderà le cose che si sono guadagnate le generazioni europeiste precedenti. In Italia tenterà un nuovo inizio provando a rilanciarsi con il premierato, con l’attacco alla magistratura, l’autonomia differenziata.

Il governo durerà?

Tre anni sono lunghi, non so se ce la fanno. Intanto perché Salvini ha il vantaggio di essere totalmente irresponsabile, il che gli dà una libertà enorme. Ma c’è un problema di fondo. Quando sono arrivati al governo si sono trovati nella felice condizione di avere 200 miliardi da spendere. E quando c’è da aspettare che arrivi qualcosa, sono tutti sorrisi. Dopo il Covid l’Italia ha avuto una ripartenza forte grazie al fatto che il governo giallorosso ha bloccato i licenziamenti, pagato le cassintegrazioni e dato 250 miliardi di garanzie alle aziende verso le banche. Ora abbiamo davanti uno scenario con problemi seri di finanza pubblica. E la storia ci dice che la destra è come il pedalò, sta fuori se c’è il sole, quando piove invece non ce la fa, deve arrivare qualcun altro.

Un nuovo governo tecnico?

Il tema non si porrà: se la destra cadesse, non sarebbe un pranzo di gala, il rimbalzo arriverebbe dal profondo del paese. Perché per il nucleo di FdI, il governo è una rivincita storica. Lo ha dimostrato Meloni con la “letterina” ai dirigenti, dove ha scritto che i conti con la loro storia, cioè il fascismo, li hanno già fatti. Ma se era vero, a che serviva la letterina? Per risolvere quel problema dovrebbe avere un pensiero nuovo, gesti forti. Ma non può. Per questo Salvini ha trovato la chiave per metterla in difficoltà. Se lei si asterrà su von der Leyen, vedrete che numeri farà. Per lei, ogni giorno avrà la sua pena.

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