Meloni, all’angolo dopo l’aumento dei flussi, ha portato in Cdm misure straordinarie per gestire i migranti. È un assist all’alleato leghista, ormai anche avversario interno, che ha avuto gioco facile nel riportare al centro del dibattito il suo cavallo di battaglia. Attaccando sia l’Ue che la gestione imposta da Meloni e strappando il tema al ministro leghista Piantedosi
La questione dei migranti sta diventando una bomba dentro il governo. Per questo la premier Giorgia Meloni è dovuta correre ai ripari a fronte dell’impennata di arrivi a Lampedusa e delle sonore critiche alla sua linea arrivate dalla Lega. Prima con il viaggio a Lampedusa insieme alla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen proprio in concomitanza con la festa di Pontida, poi con il Consiglio dei ministri di ieri in cui si è aggiunto, in corsa, un punto sostanziale all’ordine del giorno: l’approvazione di misure straordinarie in materia di flussi migratori. La settimana prossima, poi, è già stato programmato un nuovo Consiglio con ulteriori norme per provare a bloccare gli arrivi.
Le misure straordinarie, confluite nel decreto Sud, si traducono essenzialmente in due punti: l’istituzione di un Centro per i rimpatri (Cpr) in ogni regione «con mandato al ministero della Difesa di realizzare nel più breve tempo possibile le strutture per trattenere gli immigrati illegali», e l’aumento fino a 18 mesi del tempo di trattenimento dei migranti, arrivando così al il massimo consentito dalla normativa europea. «Il tempo necessario – secondo Meloni – non solo per fare gli accertamenti dovuti, ma anche per procedere con il rimpatrio di chi non ha diritto alla protezione internazionale».
Entrambe le misure, tuttavia, difficilmente potranno avere esiti immediati. I Cpr vanno allestiti in strutture già esistenti e non immediatamente disponibili, e poi gestiti. Aumentare il tempo di fermo dei migranti significa organizzarne anche la distribuzione sul territorio nazionale e si intreccia con la complessa e fino a ora poco fruttuosa attività di rimpatrio.
Politicamente, dunque, il risultato è quello di una premier alla spasmodica rincorsa dei suoi stessi alleati su un tema per il quale gli slogan funzionano mentre si è all’opposizione ma non bastano più quando si governa. In particolare ora, quando è sempre più evidente che il vero snodo della questione non sono i quasi impossibili respingimenti ma una gestione strutturata dell’accoglienza e redistribuzione di quanti arrivano.
Meloni, che in campagna elettorale non aveva cavalcato la questione migratoria oltre alla boutade sul «blocco navale», da premier ha invece puntato a spostare fuori dall’Italia la sede di risoluzione: in nord Africa con il piano Mattei e a Bruxelles con il coinvolgimento dell’Unione. Entrambe strategie di medio-lungo termine che fino a ora – soprattutto la prima – si sono rivelate infruttuose. Rinunciando invece a capire come fare fronte sul territorio ad arrivi che in estate sono più massicci.
Meloni all’angolo
In Consiglio Meloni ha provato a presentare l’Italia come il paese che detta la linea all’Europa, spiegando che i 10 punti presentati da von der Leyen a Lampedusa sono «perfettamente in linea con quel cambio di paradigma che questo governo ha sostenuto e che ora si è affermato a livello europeo».
Poi, forse per la prima volta, ha cercato di condividere il presunto successo con gli alleati. «Decidiamo noi chi entra in Europa, non i trafficanti di esseri umani: ha detto von der Leyen a Lampedusa. Sono parole che abbiamo più volte pronunciato io, Salvini, Tajani e noi tutti. È il sunto della nuova visione che si è affermata in Europa grazie all’Italia». Con la consapevolezza, però, del rischio che le promesse stagnino nelle paludi europee. «Il governo seguirà con grande attenzione gli impegni che l’Europa si è assunta con l’Italia», a partire dalle risorse per la Tunisia. Eppure, a tradire il nervosismo della premier, in Cdm è tornata alla sua ormai canonica linea comunicativa, con il dito puntato verso «parte delle forze politiche italiane ed europee» che «per ragioni ideologiche o, peggio, per calcolo politico, remano contro e fanno di tutto per smontare il lavoro». Un riferimento all’Alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell (contrario al Memorandum con la Tunisia) ma anche al Partito democratico che, secondo Meloni, vorrebbe «rendere ineluttabile l’immigrazione illegale di massa».
Una visione complottista che cozza con le mosse della premier che, fino a oggi, ha puntato sul rapporto con von der Leyen e sulla possibilità di sfruttare questo “asse” a proprio favore. Difficile però che, in questo modo, Meloni riesca a vincere la sfida con Matteo Salvini. Il leader della Lega da giorni ha iniziato la sua campagna elettorale per le europee. E lo ha fatto vestendo chiaramente i panni del leader anti Ue. Quasi a dire: se volete cambiare qualcosa a Bruxelles votate me e non Meloni che è ormai compromessa con i poteri europei.
Vince Salvini
Un messaggio sicuramente più efficace e capace di intercettare pulsioni e ansie degli elettori del centrodestra. Non a caso il ministro dei Trasporti ha fatto approvare in Cdm la nuova stretta sul codice della strada, nata sull’onda dell’emotività dopo il caso di cronaca della Lamborghini, guidata da un gruppo di Youtuber, che a Casal Palocco aveva ucciso un bambino.
Nulla di sostanzialmente risolutivo, ma comunque ottimo per riproporre quei messaggi securitari che in campagna elettorale sono la cifra della Lega. Il risultato, quindi, è quello di una premier messa all’angolo e che, sulla gestione dei migranti, ha fornito a Salvini un assist politico inaspettato. Creando la cabina di regia da cui il vicepremier è escluso e diluendo le responsabilità del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha permesso alla Lega di smarcarsi dal governo. Uno smarcamento che sarà ancora maggiore ora, visto che le norme straordinarie appena approvate affidano al ministero della Difesa di Guido Crosetto la responsabilità di costruire i Cpr.
In questo modo, però, il leader leghista ha gioco facile nell’opporsi a tutto. Così, mentre Meloni è costretta a muoversi con la diplomazia e a cercare l’appoggio persino dell’odiato presidente francese Emmanuel Macron, Salvini ha portato sul pratone leghista di Pontida l’ultradestra di Marine Le Pen e da lì ha attaccato il governo francese.
Il ritorno alle origini del vicepremier – che sulla lotta all’immigrazione ha costruito la sua cifra politica – è stato involontariamente propiziato dall’ansia accentratrice di Meloni, che sta gonfiando invece che depotenziando il problema migratorio, rendendolo sempre più il centro della prossima campagna elettorale. E la Lega ha già iniziato a capitalizzarlo a spese di Fratelli d’Italia.
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