Alla vigilia della Costituente del M5s, che si apre sabato alle 14 al palazzo dei Congressi di Roma, quello che doveva dire Giuseppe Conte agli alleati l’ha già detto: se la «comunità degli iscritti» decidesse di negare la definitiva scelta di campo progressista, «io non potrei farmi interprete di questa differente linea politica. E per coerenza e serietà mi farei da parte».

Lo ha ribadito venerdì al Quotidiano nazionale. Il giorno prima a Repubblica, aveva arpeggiato intorno allo stesso concetto. Questo non significa che Conte proporrà, nel suo discorso di domenica alla fine delle votazioni dei punti programmatici, un’alleanza «strutturata» con il centrosinistra. Anzi, la parola centrosinistra è bandita, si parla di «campo progressista» perché, spiega il senatore Luca Pirondini, «centrosinistra è una formula che rimanda a esperienze politiche precedenti».

Per Conte comunque un’alleanza «organica» è esclusa, «non sarebbe compatibile con il dna del M5s», ma c’è la disponibilità a «un dialogo con le forze del campo progressista per valutare intese, stando sempre attento a difendere la nostra identità e le nostre battaglie». È molto, rispetto alla storia degli “ex” grillini. Il cimento di Conte sarà portare su questo punto, fra i dodici al voto, una maggioranza incontestabile: basta una minoranza corposa per il no agli accordi per guastare la festa al presidente.

Alla vigilia, non si sa se Beppe Grillo farà la sua «epifania» all’Eur. Venerdì, dopo una visita lampo a Roma, circolava voce di una sua incursione online: ma, visto il programma serrato dei dibattiti di sabato e domenica, è difficile che online significhi “in collegamento” con il palazzo dei Congressi. Piuttosto un colpo di teatro dal blog o dai social.

Ballando con le (5) stelle

Al Pd ci si guarda bene dall’entrare nei casi dell’alleato. «Seguiamo con rispetto e attenzione il dibattito della Costituente», spiega Igor Taruffi, responsabile organizzazione dem, «ma intanto valuto positivamente le posizioni assunte da Conte in questi ultimi giorni, e la particolare chiarezza sulla collocazione del suo movimento nel campo progressista. Sono scelte importanti, per costruire un’altra gamba solida all’alternativa alla destra».

Eppure la collocazione a sinistra non risolve tutti i dubbi agli alleati. Intanto bisogna misurare se quella di Conte è un’opa sull’elettorato rossoverde. Nicola Fratoianni, che gli ha aperto le porte in Europa nel gruppo di The Left – una decisione presa all’indomani delle europee «in accordo con i nostri amici di Sinistra italiana», fu spiegato da Bruxelles – non se ne preoccupa: «Non ho la sindrome della bandiera, anzi sono proprio contento: faccio politica per cambiare le cose, non per avere la bandiera più rossa. Più siamo, meglio è».

C’è anche da dire che se alle europee M5s ha preso il 9,9 per cento e Avs il 6,7, alle regionali di Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna i rossoverdi hanno portato a casa più voti del Movimento; e in Umbria gli sono rimasti dietro dello 0,4 per cento. Ma nessuno dica competizione. Angelo Bonelli dalla due-giorni si aspetta che «si avvii un confronto per costruire un’intesa programmatica sulle grandi questioni che riguardano il futuro dell’Italia: lavoro, lotta alla povertà, sanità pubblica, scuola pubblica, energia e clima».

Alla larga da Schlein

Come si distribuiscono i voti a sinistra, per il Pd con il vento in poppa non è un problema: purché i voti arrivino. «È interesse del Pd avere alleati solidi», ha spiegato Elly Schlein all’ultima conferenza stampa. Certo, c’è l’ideuzza che M5s e Avs convergano per fare il contraltare radicale dello schieramento. Per l’immediato hanno già un accordo di ferro contro l’alleanza con Italia viva, «non per un veto, ma per incompatibilità programmatica», spiega ancora Bonelli.

Ma si vedrà cosa significa davvero: in Liguria Conte ha ottenuto la cacciata dei candidati renziani, ma in Emilia-Romagna e Umbria il partito di Matteo Renzi stava nell’alleanza, senza simbolo e diluito nelle liste civiche. Schema utile, domani, alle politiche.

Il vero busillis, per il Pd, è capire come domenica Conte, nel suo discorso previsto alle 15 e 30, alla fine del voto se tutto va bene, declinerà la sua disponibilità al «dialogo». Cioè se accetterà il consiglio che gli ha dato, dal Fatto quotidiano, Marco Travaglio: nessun accordo «a prescindere», né «matrimoni indissolubili». Solo «contratti», come quello con il Pd di Nicola Zingaretti del governo Conte II. Ma dal Pd di Schlein «che vota per la guerra, le armi, il condono salva-grattacieli, Fitto, la commissione Ursula tutta bellicismo e austerità, e imbarca pure Renzi» meglio stare «alla larga. Meglio l’opposizione».

C’è un altro dossier che impensierisce. O forse è lo stesso: il corteggiamento in corso da parte della destra su M5s. Il laboratorio è la Rai. Il voto del consigliere d’area Alessandro Di Majo alla conferma del direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci, in buoni rapporti con Giorgia Meloni, è solo l’ultimo dei puntini che i dem uniscono quando vogliono dimostrare l’attivismo in proprio dell’alleato. Perché? Perché la premier sa che c’è un modo sicuro per assicurare un secondo mandato al suo governo: convincere Conte a correre solo.

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