- Mario Draghi ha interpretato correttamente la Costituzione salendo al Colle per dimettersi, dopo l’uscita dei 5 stelle dal Senato al momento del voto di fiducia, nonostante l’ampia maggioranza.
- Nel nostro sistema parlamentare, infatti, il governo deve avere la fiducia di entrambe le camere, ossia deve reggersi su una maggioranza la cui sopravvivenza non dipende tanto dai numeri, ma dalla sussistenza di una coesione politico-programmatica tra partiti coalizzati.
- Ogni modifica della composizione della maggioranza – come dimostra la prassi della storia repubblicana – è anche una modifica del governo che essa sostiene.
Mario Draghi ha interpretato correttamente la Costituzione salendo al Colle per dimettersi, dopo l’uscita dei 5 stelle dal Senato al momento del voto di fiducia sul decret Aiuti, nonostante il voto favorevole ottenuto grazie alla sua ampia maggioranza, anche senza i pentastellati.
Nel nostro sistema parlamentare, infatti, il governo deve avere la fiducia di entrambe le camere, ossia deve reggersi su una maggioranza la cui sopravvivenza non dipende tanto dai numeri (il 50 per cento più uno dei componenti), ma dalla sussistenza di una coesione politico-programmatica tra partiti coalizzati.
Ogni modifica della composizione della maggioranza – come dimostra la prassi della storia repubblicana – è anche una modifica del governo che essa sostiene.
Con la conseguenza che il venir meno di un partito, specie così rilevante come il M5s dopo il successo del 2018, determina l’apertura di una crisi di governo, cui seguono le dimissioni del presidente del Consiglio dei ministri.
Gli scenari
La Costituzione consente due soluzioni prioritarie prima di ricorrere a elezioni anticipate. Parlamentarizzare la crisi del governo in carica oppure formare un nuovo governo.
La prima ipotesi può giustificarsi per l’esigenza di chiarire innanzi alla sede della rappresentanza nazionale se effettivamente è venuta meno la maggioranza parlamentare che sostiene il governo in carica (anche se dimissionario).
La seconda presuppone definitivamente dissolta la maggioranza politica ed è perciò diretta a costituirne un’altra. Solo qualora non fosse realistico formare alcuna maggioranza l’alternativa diventa lo scioglimento anticipato delle camere e la convocazione dei comizi elettorali.
Il ruolo di Mattarella
La scelta del Capo dello Stato non è mai formale. La Costituzione traccia le ipotesi ma scegliere dipende dalle condizioni politiche date e dal contesto generale del Paese. In linea con i precedenti e nel rispetto della lettera della Costituzione, Sergio Mattarella ha indicato la prima strada, respingendo le dimissioni di Draghi, invitandolo a esprimere comunicazioni innanzi alle camere mercoledì.
L’intento del Capo dello Stato, accolto dal premier dimissionario, è tentare la soluzione della crisi attraverso la medesima maggioranza che fino al 14 luglio ha sostenuto l’ex presidente della Bce.
Per capire come evolveranno le cose dopo questo passaggio parlamentare è bene tener presente le numerose variabili di una situazione politica ingarbugliata.
La crisi aperta dai Cinque stelle è stata anomala. Alla Camera hanno votato “sì” alla fiducia posta dal governo Draghi sul “decreto-aiuti” ma poi “no” all’approvazione dell’articolo unico della relativa legge di conversione, grazie al doppio voto consentito dal regolamento di Montecitorio (art. 116).
Al Senato, però, non essendoci una norma analoga, i Cinque stelle sono usciti dall’aula. La capogruppo del M5S ha chiarito che così avrebbero voluto ribadire il proprio sostegno al governo ma pure la propria contrarietà al “decreto-aiuti” (specie alla norma sul termovalorizzatore di Roma).
Non è un dettaglio sottolineare, però, che alla Camera il voto sulla fiducia precede il voto sul provvedimento, proprio perché, come vuole la Costituzione, tra i due voti è il primo quello che conta per l’esistenza di un governo quando pone la “questione di fiducia” su un provvedimento che ritiene rilevante.
Il rinvio alle camere di Draghi servirà per chiarire una volta per tutte qual è la posizione politica del M5s.
Fine legislatura?
La questione più rilevante, sottesa a tutte le ipotesi in campo, è se sia possibile condurre la legislatura alla sua scadenza naturale nel 2023 o se si andrà ad elezioni anticipate.
Il discrimen pare essere proprio il M5s. È possibile un governo (con Draghi o no) senza la forza politica più votata nel 2018? E nonostante il suo progressivo dissanguamento parlamentare e la sua caduta nei sondaggi?
I precedenti contano: tutti i governi di questa legislatura hanno ruotato intorno al M5s proprio perché, Costituzione e legge elettorale alla mano, era il partito di maggioranza relativa.
Draghi ha sempre ritenuto essenziale il ruolo di tutti i partiti che lo hanno sostenuto e, soprattutto, che non avrebbe potuto andare avanti senza i pentastellati, vista la vocazione “istituzionale” del suo governo.
In questi giorni, in attesa delle comunicazioni del governo di mercoledì, l’obiettivo perseguito dal “tandem” Mattarella-Draghi dovrebbe essere proprio quello di ripartire da quell’alleanza insieme al M5s e non senza il Movimento.
Ma sarebbe possibile – qualora Draghi fallisca – una nuova maggioranza e un nuovo governo senza i 5 stelle? Vedremo. Ciò nonostante, qualora la partecipazione al governo del Movimento fosse ritenuta necessaria, in primis dal capo dello Stato, l’alternativa alla loro indisponibilità diventerebbe solo un governo elettorale, che gestisca gli affari correnti e le diverse emergenze in vista di un voto anticipato.
Piano B
Come inciderà il contesto emergenziale in cui versa il Paese? È probabile che la pandemia, la guerra e la crisi economico-sociale convincano Mattarella a ritentare, proprio come nel 2021 – anche se oggi in una situazione ben diversa – la carta di un “governo istituzionale” di fine legislatura “senza formula politica precostituita”. In questo caso chi potrebbe essere il presidente del Consiglio incaricato?
Lo stesso Draghi, o un’altra figura che abbia caratteristiche analoghe di terzietà politica e affidabilità nazionale e internazionale? Anche in questo caso, tuttavia, non tutte le porte sembrano aperte. Forse, dopo due governi politici (Conte I e II) e un governo di emergenza nazionale (Draghi) e, specialmente, in vista dell’imminente scadenza della legislatura con tutti i partiti in stato di mobilitazione preelettorale, tra un “governo politico” e un “governo tecnico” quest’ultimo sembra essere l’orizzonte più realistico.
C’è da chiedersi se i pesanti compiti che attendono il governo, tra cui l’attuazione del PNRR (che ha una durata che supera questa legislatura) e soprattutto l’approvazione della legge di bilancio (entro il 31 dicembre 2022, ma che in gran parte è già stata scritta dal governo Draghi con la Commissione europea), saranno ostacolati qualora si arrivasse a elezioni anticipate in autunno e se, quindi, costituiranno un motivo in più per varare un governo di fine legislatura senza votare prima del 2023.
Al riguardo non ci sono limiti costituzionali, essendoci i tempi tecnici sia per svolgere le elezioni sia per formare un nuovo governo nella pienezza dei poteri entro la fine dell’anno. Anche qui, dunque, il problema è politico e non giuridico.
In questo scenario, aperto a molte ipotesi, cruciale sarà il ruolo dei partiti e, soprattutto, la relativa decisione se, in vista delle elezioni politiche – o subito o nel 2023 – conviene di più stare dentro una maggioranza di governo o all’opposizione. Ancora una volta, come nel 2021, le ragioni della Costituzione e gli interessi nazionali, di cui il Capo dello Stato è il tutore, si trovano contrapposti agli interessi della politica. Quali prevarranno nella soluzione di questa anomala crisi di governo?
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