«Non luogo a procedere per Renzi, assoluzione per Salvini; quindi bisogna accelerare la separazione delle carriere». Questo il mantra che risuona da alcuni giorni nel dibattito politico, rilanciato dalla presidente Giorgia Meloni subito dopo il verdetto di Palermo.

Il “sillogismo” è del tutto privo di fondamento logico e giuridico. È evidente, infatti, che i due proscioglimenti smentiscono i luoghi comuni che giustificherebbero la separazione. Essi dimostrano, in modo lampante, che i giudici italiani non sono affatto appiattiti sui colleghi pubblici ministeri e che non si fanno in alcun modo condizionare dalle tifoserie che si agitano nell’opinione pubblica.

Eppure, quel “sillogismo” dice molto dei reali – anche se sottaciuti – obiettivi della riforma costituzionale in discussione alla Camera. Il problema è il pubblico ministero: i giudici hanno dimostrato – ancora una volta – che i pubblici ministeri hanno costruito teoremi infondati. Quindi, bisogna controllare l’operato dei rappresentanti dell’accusa e “responsabilizzarli”. O, meglio, “normalizzarli”.

Il pm e l’esecutivo

Sia chiaro: l’idea di ricondurre il pubblico ministero al circuito democratico, per fornire legittimazione alle scelte relative all’azione penale, non è assolutamente peregrina. Sul piano storico, merita ricordare che, in Assemblea costituente, essa era sostenuta dalla Democrazia cristiana, con Giovanni Leone (poi sesto presidente della Repubblica), il quale proponeva di assoggettare il pubblico ministero all’esecutivo. Ma la politicizzazione dell’ufficio dell’accusa era condivisa anche dai comunisti, che propugnavano l’elezione popolare diretta dei magistrati.

Nel panorama contemporaneo, in quasi tutti i paesi europei il pm è un organo che dipende dall’esecutivo. Pure negli Usa è un ufficio fortemente politicizzato, posto che, a livello statale, è eletto direttamente dal popolo e, a livello federale, è nominato dall’esecutivo.

Non credo sia un modello auspicabile.

Il modello americano

Negli Stati Uniti, l’elettività dei prosecutors è all’origine di tante degenerazioni, tra cui l’incarcerazione di massa e la diffusione incontrollata di prassi di giustizia sommaria fortemente discriminatorie. Nelle democrazie europee, è da decenni che si lotta strenuamente (e spesso invano) per assicurare l’indipendenza del pubblico ministero rispetto alle ingerenze (dirette e indirette) del ministro e per garantire, di conseguenza, l’eguaglianza dei cittadini. Già un secolo fa, Piero Calamandrei scriveva: «Affermare da una parte che la legge è eguale per tutti e dall’altra lasciare al potere esecutivo la possibilità di farla osservare soltanto nei casi in cui non dispiace al partito che è al governo, è un tale controsenso, che non importa spendervi su molte parole».

Proprio grazie all’opera di Calamandrei, che si batté in Costituente contro democristiani e comunisti, noi quell’indipendenza del pm – strettamente correlata all’obbligatorietà dell’azione penale – ce l’abbiamo scolpita in Costituzione. Negli anni scorsi, la riforma Cartabia ha cercato di aggiornare il modello italiano, assicurando una (necessaria) razionalizzazione dell’obbligatorietà: per un verso, attraverso la definizione dei criteri di priorità, in un dialogo aperto e trasparente tra parlamento e procure; per altro verso, introducendo il criterio della ragionevole previsione di condanna (ossia proprio quello che ha portato al non luogo a procedere nel processo Open).

Un mostro giuridico

Oggi le forze politiche di maggioranza vogliono sovvertire il modello costituzionale; ma per sostituirlo con un mostro giuridico. La proposta avanzata da Carlo Nordio prevede di separare non le carriere, ma le magistrature e di dar vita a una magistratura requirente, che continuerà a essere (asseritamente) indipendente dall’esecutivo.

Un vero ossimoro costituzionale, con un effetto potenzialmente devastante. Quello di creare una casta separata di procuratori, protetta da un proprio Csm e titolare di un potere autonomo rispetto al giudiziario; un potere capace di entrare in sintonia con l’opinione pubblica e destinato a rafforzarsi senza ostacoli in un limbo istituzionale; un “non spazio”, sottratto a qualsiasi controllo democratico. Insomma, qualcosa che non esiste in alcuna democrazia liberale.

Il che fa sospettare che i modelli a cui guardano i novelli riformatori siano altri. L’auspicio è che i tanti sostenitori in buona fede della manovra se ne rendano conto; prima che sia troppo tardi.

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