C’è un impasto di violenza trattenuta e di rancore senza filtri nella comunicazione e nella politica di Giorgia Meloni. La rabbia con la quale si rivolge agli avversari evidenzia un sostrato roccioso di aggressività verso tutto quanto non si adegua alla sua visione del mondo.

Poi, da politica consumata, avvezza agli strati alti della politica, può sfoggiare ammalianti sorrisi e smorfiette d’occasione. Del resto Meloni è stata uno dei più giovani ministri della Repubblica (governo Berlusconi 2008), e quindi basta con questa storia farlocca dell’underdog, invenzione mediatica di successo ma che non ha retto a un minimo di controinchiesta seria sugli innumerevoli travisamenti della realtà.

Nemmeno la sobrietà fa parte del suo stile. Ma fosse solo questione di bon ton. La politica di questo governo sta modificando in profondità l’assetto democratico, con la compiacenza ottusa o plaudente di tanti nuovi compagni di viaggio.

Alcuni non vogliono rendersene conto e accusano i critici di eccessivo allarmismo e di fobia antifascista (come fosse un difetto); altri considerano che il nostro sistema politico vada aggiustato in direzione di una maggiore concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo: esattamente il contrario di quello che dovrebbe pensare ogni liberale, cioè colui o colei che considera i diritti individuali e collettivi intangibili e in quanto tali da difendere contro ogni tentazione invasiva del potere.

Però sono in buona compagnia questi pallidi liberali. In Francia il ministro dell’Interno ha tranquillamente sostenuto che lo stato di diritto, in fondo, non è così importante. Ha dovuto fare marcia indietro, ma è già significativo l’omaggio fatto ai lepenisti da cui dipende la sopravvivenza del governo Barnier.

Sfregi allo stato di diritto

In Italia gli sfregi allo stato di diritto si accumulano l’uno sull’altro alzando sempre di più la soglia dello slittamento illiberale della nostra democrazia. I recenti decreti Sicurezza, figli diretti e legittimi del decreto Rave party, rapidamente archiviato nella memoria collettiva benché indicasse già chiaramente qual era la direzione di marcia del governo, puniscono con pene detentive chiunque protesti pacificamente e intraprenda azioni di disubbidienza civile.

Mettere in gioco il proprio corpo, contrapporlo alla violenza repressiva senza reagire altro che con la passività nonviolenta rappresenta una delle conquiste più alte della politica contemporanea. Anche se si connette idealmente ad altri esempli del passato come le donne con bambini che si stendevano di fronte alla cavalleria di Bava Beccaris per difendere gli scioperanti (e, se si mi consente un episodio personale, mio nonno mi raccontò di quando, da bambino, nell’aprile del 1898, aveva visto nella piazza di Faenza il comandante del locale squadrone di cavalleria, già pronto a caricare le donne scese a protestare per il pane, seduto nella macelleria della piazza, in lacrime per dover ubbidire agli ordini e decidere l’assalto; un senso di umanità che oggi sembra perduto.

Poi la carica venne evitata, oltre ad essere stata resa difficoltosa dal lancio di frutta e ortaggi sul selciato per far slittare i cavalli, come ricordò Pietro Nenni).

Perseguitare gli inermi

Il governo Meloni trova invece un piacere particolare nel perseguitare gli inermi. Pensiamo solo alle norme punitive oltre ogni decenza nei confronti degli immigrati ai quali si vogliono sottrarre, appena sbarcati, soldi e telefoni cellulari: una specie di furto legalizzato da parte dello stato, una scena che ricorda l’inizio del calvario di quelle donne rapite dal regime nel film, distopico ma non troppo, di Michel Franco, Nuevo Orden.

Questo provvedimento xenofobo come illustrato con precisione da Vitalba Azzolini su queste colonne, va contro ogni norma costituzionale oltre che ogni senso di umanità. Infine, a completare il quadro si arriva a punire il digiuno di protesta dei carcerati. Questo governo si muove tra pulsioni autoritarie e accanimento contro i deboli. E dimostra, con la vicenda della nomina del giudice della Corte costituzionale, di non conoscere lo spartito della divisione dei poteri e del check and balance.

Il consigliere giuridico del capo del governo, per di più autore di una norma di sistema che dovrà passare al vaglio della Corte, non è candidabile. Il conflitto d’interessi è grande come una casa. E questa candidatura se non viene ritirata, allora vuol dire che il trumpismo, con connessa arroganza del potere, è sbarcato anche qua. E con l’amico Orbán a imperversare tra Pontida e il parlamento europeo, il cerchio si chiude.

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