Dopo la debacle con dietrofront ed ennesima scheda bianca della maggioranza per eleggere il giudice costituzionale, la linea di Fratelli d’Italia rimane comunque invariata. Comunicativamente la chiave è quella di condannare l’Aventino delle opposizioni «che va contro le richieste del Colle» è l’accusa di scuderia, ricordando come Sergio Mattarella abbia chiesto di colmare il vuoto del giudice mancante.

A livello tattico, invece, la decisione è di andare avanti a oltranza: si salta la prossima settimana per ragioni di calendario, ma dal 21 ottobre il parlamento in seduta comune dovrebbe essere riconvocato. Non cambia nemmeno il nome da scrivere sulla scheda: sempre Francesco Saverio Marini, costituzionalista e consigliere giuridico della premier Giorgia Meloni, nonché autore della riforma sul premierato.

Spontanea la domanda: cui prodest? A chi conviene incaponirsi così, dopo la già conclamata assenza dei famigerati 363 voti di maggioranza qualificata ai tre quinti? Le opposizioni hanno già detto, con la segretaria Elly Schlein, che voteranno solo se il centrodestra aprirà il dialogo su un nome.

«Lo chieda a quei signori lì...» è la risposta che arriva da un big di Forza Italia, riferendosi agli alleati di governo. Anche la Lega rimbalza la domanda: «Noi non contiamo nulla in questa partita». La risposta infine arriva: «Meloni non vuol sentire ragioni», è la spiegazione data da fonti di maggioranza. Marini deve andare in Corte costituzionale, ne va della credibilità della premier che su questo si è impegnata. Ed esiste anche un secondo livello di strategia, che viene definito «un contropiede».

In altre parole, FdI punta ad andare avanti a oltranza fino a fiaccare il fronte unito delle opposizioni, che si sono ricompattate sul non voto ma che – secondo la maggioranza – non reggeranno a lungo. Troppe le inimicizie e i disaccordi. Quando un gruppo romperà il fronte anche gli altri franeranno, certificando così la fragilità dell’alleanza progressista che subirà un danno doppio rispetto a quello inflitto.

Con il ritorno in aula e nel segreto dell’urna – tutti i voti sulle persone sono a scrutinio segreto – la scommessa è che sia possibile costruire quel consenso coperto in favore di Marini che, viene ricordato, è un insigne giurista che ha lavorato anche per altre amministrazioni. Inoltre, anche in passato, non sono mancati giudici costituzionali con una connotazione politica. Primo tra tutti l’attuale presidente Augusto Barbera.

La sponda di Calenda

La tattica potrebbe avere qualche possibilità di riuscita. Infatti, la prima defezione nel fronte unito delle opposizioni già è arrivata. A rompere è stato il leader di Azione, Carlo Calenda, che in un video sui social appena 24 ore dopo la perfetta riuscita del contro blitz ai danni di Meloni ha fatto sapere che per lui è già finita qui.

«Abbiamo dato un segnale di compattezza e siamo usciti, ma non si può andare avanti così perché la Consulta rischia di non poter più funzionare da dicembre in poi», ha detto, avvertendo che «il governo deve dimostrare un minimo di apertura verso le opposizioni e le opposizioni la devono piantare di fare l'Aventino. Noi la finiremo perché così non si va avanti».

Poi fa la vera apertura che Meloni aspettava: Marini, secondo Calenda, «non è un pericoloso fascista, è un professore di diritto costituzionale che ha lavorato con la sinistra, con Zingaretti, e ha lavorato al premierato con la destra».

Tradotto: Marini sarebbe anche votabile, servirebbe solo la buona volontà della maggioranza di non imporlo, ma di proporlo. Magari cominciando a ragionare già anche dei tre giudici che scadranno a dicembre, per cui lo schema dovrebbe essere quello di altri due nomi di appannaggio della maggioranza e uno scelto dalle opposizioni. Quale delle tante, considerando la fragilità dell’ex campo largo, è difficile a dirsi.

Anche perché, dentro il Pd, si ragiona del fatto che un approccio non padronale alla Consulta vorrebbe che il terzo nome del voto di dicembre non possa essere di chiara provenienza conservatrice, ma debba essere concordato e di mediazione. In ogni caso il voto di dicembre è ancora fantapolitica perché le prime tre votazioni saranno addirittura a maggioranza qualificata dei due terzi del parlamento in seduta comune, virtualmente quasi irraggiungibile salvo un accordo blindato maggioranza-opposizione oggi inimmaginabile.

In ogni caso, appena il post di Calenda è arrivato alle orecchie di Pd, Cinque Stelle e Italia Viva, è subito scattato l’allarme e i dieci giorni che separano dal prossimo voto possibile serviranno ad arginare il problema.

I numeri

Con una consapevolezza per il centrosinistra: i numeri d’aula di lunedì con la maggioranza ferma a 323 (anche se alcuni non sono entrati per votare scheda bianca), ben 40 voti sotto i necessari nonostante il soccorso del gruppo misto, fanno sì che Calenda con i suoi 11 voti rimanga comunque irrilevante.

Il pallottoliere parlamentare non mente: se anche il numero di eletti è di 355 (tolti i due presidenti delle camere), avere tutti i ministri in aula è quasi impossibile e qualche malato è fisiologico, come anche qualche franco tiratore nel proprio fronte. Se anche si confermassero i sette voti del misto e cinque del gruppo delle Autonomie, si arriverebbe comunque sul filo del rasoio e ci vorrebbe un gran coraggio a dare mandato di mettere nell’insalatiera il nome di Marini, con il rischio di bruciarlo magari per una manciata di voti contati male.

«Per andare davvero tranquilli, bisogna essere almeno sulla soglia di 400 voti virtuali», spiega un esponente di maggioranza che è pratico delle insidie dell’aula.

La speranza del governo, allora, è che la presenza in aula del gruppo di Azione attiri a Montecitorio anche altri gruppi: i Cinque stelle, con cui già nei giorni scorsi c’erano stati abboccamenti, o Italia Viva. Del resto, viene ricordato, in ballo c’è il nome in quota opposizioni di uno dei giudici da eleggere a dicembre e FdI sarebbe pronta ad avere un occhio di riguardo per la proposta di chi, alla prossima convocazione, mostrerà il giusto zelo costituzionale. Con l’ambizione di fondo di isolare il Pd.

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