Un decreto per l’agricoltura a favore di Francesco Lollobrigida, un altro per la coesione di Raffaele Fitto, un altro ancora per lo sport di Andrea Abodi. E poi le materie prime di Adolfo Urso, la sanatoria edilizia di Matteo Salvini, le liste di attese di Orazio Schillaci e così via per chiunque abbia delle cose da portare a casa. Alla fine, per accontentare ogni singolo ministro, il governo guidato da Giorgia Meloni ha approvato, in poco tempo, una serie di provvedimenti con il marchio della decretazione d’urgenza. Testi che entro 60 giorni devono essere convertiti dal parlamento, pena la decadenza. Tempi brevi che rendono inevitabile il ricorso alla fiducia. Con il risultato di esautorare le prerogative degli eletti.

A tutta fiducia

I dati sono preoccupanti per il corretto funzionamento del sistema democratico. In settimana, con la blindatura di giovedì scorso del decreto Agricoltura alla Camera, è stata toccata quota 57 voti di fiducia (34 alla Camera e 23 al Senato) dall’insediamento dell’esecutivo nell’ottobre 2022. Una media superiore a 2,7 al mese, che dovrebbe crescere vertiginosamente nelle prossime settimane fino alla pausa estiva, in calendario poco prima del 10 agosto.

Il ministro dei Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, è atteso da un tour de force: dovrà recarsi in aula ad annunciare la fiducia, diventando il parafulmine delle ire delle opposizioni. C’è una coda di decreti da smaltire, otto entro la pausa estiva, per cui una buona parte richiede la fiducia. «Non possiamo far decadere i decreti, dobbiamo procedere per forza in questo modo», spiegano da palazzo Chigi.

Il tetto dei 60 voti di fiducia è insomma destinato a essere sfondato, andando sulle stesse cifre del governo Monti (media di 3 al mese) e superando quelle del governo Draghi (a quota 2,89), che però erano tecnici e quindi con una composizione eterogenea della maggioranza. Il dato dell’esecutivo di Meloni è peraltro viziato da un fattore: nel mese di maggio i lavori parlamentari sono andati a rilento, l’attività si è quasi fermata in attesa delle europee.

La valutazione è anche politica: l’unità del centrodestra, sbandierata come un valore inossidabile, non sembra reggere alla prova dei passaggi parlamentari dove l’approccio è quello da esecutivo tecnico. Addirittura uno sempre abile a tessere le lodi di Meloni come il capogruppo di Fratelli d’Italia, Tommaso Foti, ha fatto fatica a giustificare il governo. «Qualcuno può dire che ci sono troppi decreti», ha detto provando a difenderne il contenuto: «Ma non sono omnibus».

I numeri confermano un dato di fatto: gli appelli del presidente della Repubblica sono stati puntualmente ignorati. Sergio Mattarella, in ogni occasione possibile, ha chiesto un maggiore rispetto dell’iter legislativo ordinario. C’è stata una costante moral suasion pure per frenare il ricorso a emendamenti che rendono “omnibus” i vari provvedimenti. Dunque, dei Frankenstein normativi.

Nelle ultime settimane si registra una certa preoccupazione del Colle verso il binomio decreto leggi-voto di fiducia alla luce di quanto previsto dai calendari parlamentari. Meloni rassicura sempre Mattarella e chiede ai ministri maggiore attenzione. Solo che da palazzo Chigi vengono sfornati decreti senza soluzione di continuità, dando un assaggio di cosa possa significare il premierato con un parlamento ridotto a passacarte. E la presidenza della Repubblica spettatrice passiva.

Il caso sport

Del resto non mancano piccoli sgarbi quotidiani al Quirinale. Uno dei più recenti riguarda l’emendamento al decreto Sport che potenzia il ruolo della Lega calcio di serie A, quello firmato da Giorgio Mulè dietro la regia dei presidenti dei principali club calcistici. Secondo quanto risulta a Domani, dal Colle era stata segnalata l’estraneità per materia, ben prima della presa di posizione di Uefa e Fifa, suggerendo il ritiro. A palazzo Chigi lo stesso ministro dello Sport Abodi aveva proposto di riformare la materia in un provvedimento più ampio.

La maggioranza ha però voluto approvarlo, sebbene con una riformulazione che ha ridotto la portata del contenuto a un semplice principio. La pressione decisiva è arrivata dal ministero dell’Economia di Giancarlo Giorgetti: ha imposto che l’impatto fosse ridotto. A quel punto poteva esserci lo stop per accogliere i rilievi del Colle. Invece no, la destra ha deciso di andare avanti, dando un segnale del suo modus operandi.

Il clima è quello di una maggioranza intenzionata a compiere strappi. Significativa proprio la fiducia apposta sul decreto Agricoltura a Montecitorio. Le opposizioni hanno invocato un dialogo: il tema era di interesse comune. Non c’è stato nulla da fare, Lollobrigida ci ha messo la faccia andando alla Camera. È stata l’unica concessione.

«È incomprensibile che un governo con pienezza delle proprie capacità politiche, con una maggioranza indiscutibile, arrivi a mettere più voti di fiducia dei governi tecnici», sottolinea il deputato di +Europa, Benedetto Della Vedova.

Sotto esame finisce anche l’operato dei presidenti delle Camere, a cominciare da quello di Montecitorio, Lorenzo Fontana. «Non si organizzano così i lavori, non è accettabile da parte della Camera», dice l’esponente del partito di Emma Bonino senza entrare in diretta rotta di collisione con la terza carica dello stato. Ma il problema esiste, Fontana stesso aveva assunto un impegno a evitare questa deriva, trovandosi d’accordo con il presidente del Senato, Ignazio La Russa. I risultati deludenti, però, sono palesi: deputati e senatori relegati al ruolo di schiaccia-bottoni.

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