Il XX secolo si è concluso con una diffusione territoriale senza precedenti della democrazia. È stata una novità storica assoluta, eredità dell’ultima parte del Novecento, nel corso del quale sono implosi molti stati autoritari e totalitari e «il termine democrazia ha assunto un significato elogiativo universalmente riconosciuto» (Sartori).

Rispetto agli anni Novanta, oggi consideriamo con minor slancio ottimistico la prospettiva di una diffusione globale della democrazia e siamo consapevoli dei rischi di regressione illiberale che possono correre anche i sistemi democratici più stabili.

Nel 2019, per la prima volta dal 2001, il numero dei sistemi non democratici è tornato a prevalere rispetto a quello delle democrazie e nelle democrazie consolidate l’insoddisfazione per il funzionamento delle istituzioni risulta in costante aumento. Stiamo imparando che non esiste alcun nesso deterministico tra la fine della Guerra fredda e la progressiva diffusione nel mondo della democrazia. In questi anni, in molti paesi, la democrazia è in bilico. È un esito possibile, non più scontato.

Un fragile consenso

Del resto, se consideriamo la storia di questo concetto, il consenso diffuso nei confronti della forma di governo democratica risulta relativamente recente: «Fino all’inizio del XVIII secolo, quasi nessun autore, tra quelli di cui possediamo gli scritti, pensava che la democrazia fosse un modo desiderabile di organizzare la vita politica», ci ha ricordato a suo tempo David Held. A questo proposito, dobbiamo sottolineare che, nella prolungata diffidenza verso la democrazia, vi sono due differenti fattori di contrarietà: a) un’obiezione relativa alla preferibilità; b) un’obiezione relativa alla praticabilità.

La prima obiezione risale almeno ai tempi della Grecia antica e di Platone, secondo il quale la democrazia costituisce una forma di governo deplorevole, in quanto inibisce l’insorgenza e la maturazione delle qualità, come la saggezza e la competenza, necessarie a governanti capaci. Appartengono al secondo caso le critiche relative all’efficacia dei processi costituenti democratici e alla capacità della democrazia di riprodursi nel tempo.

Circa la seconda obiezione, in pieno Settecento Jean-Jacques Rousseau sostiene che «una vera democrazia non è mai esistita né mai esisterà. (Perché) è contro l’ordine naturale che il grande numero governi e che il piccolo sia governato». È, quella propria di Rousseau, una concezione “sostanziale” della democrazia, intesa quale autogoverno, ossia come democrazia “diretta”.

Le obiezioni di preferibilità e praticabilità contengono elementi critici diversi, i quali a loro volta risultano variamente considerati in differenti contesti nello spazio e nel tempo. Ad esempio, dopo la conclusione della Guerra fredda, le analisi sui processi di diffusione della democrazia abbondano di riferimenti a contesti nei quali tale forma di governo risulta assai poco praticabile, ma nondimeno è da molti ritenuta preferibile.

Mentre, ai nostri giorni, se è vero che cresce l’insoddisfazione verso il funzionamento della democrazia nei sistemi democratici consolidati e che, anche approfittando delle ristrettezze imposte dalla pandemia Covid-19, alcuni sistemi politici hanno imboccato la strada del ritorno verso l’autoritarismo, allo stesso tempo le manifestazioni a favore della democrazia aumentano e si irrobustiscono in molti paesi che democratici non sono.

In passato, invece, le obiezioni relative alla praticabilità della democrazia hanno osteggiato per lungo tempo l’affermazione della sua preferibilità quale forma di governo. Negli anni Novanta del Settecento, il pensatore e attivista radicale Thomas Paine fu tra i primi a sostenere che la democrazia può superare molte tiepidezze in merito alla sua preferibilità soltanto dissipando i principali dubbi relativi alla sua effettiva praticabilità al di fuori delle limitate dimensioni caratterizzanti il precedente storico della polis greca.

Questa evoluzione decisiva avviene quando i suoi propugnatori comprendono che «unendo il principio democratico del governo del popolo alla prassi non democratica della rappresentanza, la democrazia può assumere forme e dimensioni completamente nuove» (Dahl), coincidenti con gli stati nazionali.

Quale forma?

Man wearing blindfold holding voting paper looking for ballot box (Ikon Images via AP Images)

Ma di quale democrazia stiamo parlando oggi? Non certo di una democrazia diretta o di una democrazia deliberativa. Pur nella notevole eterogeneità (“varietà”) delle forme che in concreto possono assumere, a livello nazionale tutte le democrazie contemporanee sono rappresentative. Nessuna forma di partecipazione diretta dei cittadini «è concepibile in assenza di un solido funzionamento di democrazia procedurale ed elettorale» (Pasquino).

Tuttavia, le procedure non sono mai neutre: o incorporano valori o ne condizionano la scelta e, con ciò, condizionano i contenuti delle politiche. Per questo motivo non sono mai realmente sottratte alla contesa politica, come ben sappiamo essendo cittadini italiani, ossia di un paese nel quale il dibattito politico è caratterizzato da decenni da conflitti esacerbati concernenti le riforme istituzionali e da reiterate modifiche alle procedure elettorali. In altri termini, le regole possono costituire oggetto di aspra e prolungata contesa. Infatti, in tutti i casi (e non solo nel tormentato e contraddittorio ultimo trentennio italiano ), le procedure devono essere “scelte”.

Esse non sorgono spontaneamente, e tale scelta è culturalmente e politicamente connotata. Scelta, utilizzo e interpretazione delle procedure dipendono dal funzionamento di categorie culturali mediante le quali la realtà viene definita e interpretata.

Questo è il motivo per il quale l’analisi empirica della democrazia comporta sempre il confronto tra il funzionamento delle procedure e il contesto in cui sono utilizzate, non essendo possibile separare il funzionamento delle procedure dalla loro interpretazione, ossia dai condizionamenti antropologici e linguistici propri del contesto in cui operano concretamente i soggetti che applicano le regole della democrazia.

Per questo motivo è stato sostenuto che la sorte di una democrazia dipende dalla capacità dei suoi sostenitori di vincere quelle che Giovanni Sartori ha definito quali «partite invisibili», ossia quelle sfide decisive riguardanti i valori (principi morali, tradizioni religiose, abitudini sociali) che sorreggono procedure importanti relative alla tutela della minoranza, importanti almeno quanto le regole elettorali.

Deconsolidamento

Hungarian Prime Minister Viktor Orban delivers his address on the opening day of the parliament's autumn session in Budapest, Hungary, Monday, Sept. 26, 2022. Behind the PM is Speaker of the Parliament Laszlo Kover. (Zoltan Mathe/MTI via AP)

A tal riguardo, oggi sappiamo che le garanzie costituzionali non rendono immuni le procedure democratiche dagli utilizzi impropri. Le minacce alla democrazia possono provenire dall’alto, dalla classe eletta di governo. Sotto la leadership di Viktor Orbán, ad esempio, in Ungheria si è sviluppata la tendenza al “deconsolidamento” democratico e all’indebolimento dei fondamenti democratici e liberali del sistema politico. Nel caso ungherese, in un caso cioè di recente instaurazione della democrazia, la “partita invisibile” è rappresentata dalla mancanza condivisione da parte dell’élite del valore della democrazia (liberale).

Orbán, a partire dal 2014 in modo esplicito e in varie occasioni, ha sostenuto la superiorità del modello di “democrazia illiberale” a discapito della democrazia liberale considerata incapace di difendere le nazioni dall’immigrazione.

Ma non dovremmo mai dimenticare che insidie alla stabilità dei regimi democratici possono venire anche dal basso, ossia dal lato dai governati: all’interno delle stesse democrazie consolidate, soprattutto nelle coorti generazionali più giovani, negli ultimi anni diminuisce il numero di coloro che ritengono essenziale vivere in un paese governato democraticamente. E ciò dipende dal fatto che in molti contesti la democrazia si è tradotta solo in procedure che garantiscono il diritto alla rappresentanza (input democracy) ma non è riuscita a produrre adeguate politiche pubbliche (output democracy) che garantissero la tutela di importanti diritti sostanziali, quali – ad esempio – il diritto al lavoro (in alcuni casi di rilievo costituzionale, come in Italia) o i diritti sociali.

Pertanto, l’asimmetria fra i “pochi” e i “molti”, connaturata alla rappresentanza politica, si conferma quale elemento potenziale di crisi della legittimità democratica. Vi è chi ha osservato come la cosiddetta “sindrome populista” – intesa quale critica radicale rivolta all’establishment in nome di una presupposta purezza del popolo – costituisca un’ombra ineliminabile della democrazia contemporanea, poiché si radica nel meccanismo della rappresentanza che, come si è detto, costituisce la condizione di praticabilità della democrazia di massa.

Critiche e instabilità

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A tal proposito, da un lato, dobbiamo ricordare che la democrazia rappresentativa è una costruzione sempre in tensione, che consente una critica dell’operato dei rappresentanti da parte di chi li ha eletti. E che tali critiche possono essere tanto più probabili e vigorose quanto più si attraversano momenti di crisi economica e sociale.

Spesso le critiche all’operato dei rappresentanti sono “interne” alla democrazia e possono contribuire a trovare risposte a questioni sociali irrisolte. Dall’altro lato, se la critica all’operato dei rappresentanti si trasforma in ampia sfiducia nei processi e nelle regole della democrazia, allora la stabilità della stessa democrazia può correre seri rischi.

Per questo risulta così urgente il dibattito su come ricostruire le fondamenta dei sistemi democratici in tempi di crisi e diviene così prezioso il lavoro di manutenzione delle regole democratiche. Anche nel nostro paese c’è molto da fare: sia per quanto riguarda il superamento degli impedimenti che causano l’astensionismo “involontario” (l’impossibilità del voto a distanza e l’esclusione di lavoratori e studenti fuori sede costituisce un vulnus da troppo tempo ignorato), sia per il superamento dell’attuale legge elettorale che risulta insoddisfacente sotto molti punti di vista.

Sempre nella direzione del miglioramento della qualità della democrazia, sono da accogliere tutti i rilievi che ci aiutino a ripensare l’organizzazione dei partiti e delle associazioni nel contesto delle nostre esistenze trasformate dalla rivoluzione digitale (da Paolo Gerbaudo a Fabrizio Barca, da Antonio Floridia a Giovanni Moro, a Nadia Urbinati contributi che possano dare linfa al dibattito non mancano). Di fronte ai grandi cambiamenti tecnologici e alla globalizzazione la democrazia rappresentativa rischia di vacillare: o riesce a trovare il modo di essere inclusiva e efficace, oppure rischia di essere sempre più oggetto di critiche, tanto più pericolose, quanto meno consolidato è il regime democratico di riferimento.

Rispondere alle esigenze

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La democrazia “tiene” se i governanti – oltre al rispetto delle regole elettorali, degli equilibri istituzionali e del mantenimento di varie forme di pluralismo (rule of law) – rendono conto in modo efficace delle decisioni prese (accountability), rispondendo alle esigenze della comunità politica; in altri termini, se viene tenuta in debito conto la richiesta crescente di ripristino di qualità nell’erogazione dei servizi e nella tutela dei diritti.

Una carenza di responsiveness (capacità di risposta) quale quella accusata dalle democrazie occidentali a seguito della crisi economica del 2007-2008 può provocare forme di accountability sociale (voice) differenti nei differenti contesti.

Spesso tali mobilitazioni hanno messo al centro questioni care alla tradizione socialdemocratica (estensione del welfare, ripristino delle reti di protezione), ottenendo il risultato di modificare l’offerta politica delle stesse forze socialdemocratiche (così è avvenuto in Spagna, Portogallo, Danimarca e, in parte, anche in Germania) nella direzione del superamento della c.d. “terza via” ed estendendo la critica all’intero ciclo politico neoliberista.

Questo cambiamento di prospettiva è oggi centrale. Partiti e associazioni sono chiamati ad essere all’altezza della sfida e si trovano di fronte cittadini provati dal succedersi di differenti crisi (terrorismo internazionale, crisi economica, pandemica, ora la guerra e la crisi energetica), ma non rassegnati. Il nostro paese è caratterizzato da una elevata mobilitazione di cittadini, spesso all’esterno del canale elettorale-rappresentativo, in organizzazioni di cittadinanza attiva (nei campi del volontariato, del self-help, della difesa dei consumatori, dei malati o dell’ambiente), al fine di meglio tutelare diritti, curare beni comuni o sostenere soggetti in difficoltà (Moro), cercando di migliorare per tale via la qualità della nostra democrazia.

Sono tutte forme di partecipazione politica molto preziose, che spesso faticano a trovare rappresentanza istituzionale. Averne conoscenza, rispetto e cura è un primo passo per volgersi con fiducia ad un contesto oggi più sfaccettato rispetto al passato, ma ricco di potenzialità da valorizzare appieno.


Marco Almagisti, Una democrazia possibile. Politica e territorio

nell'Italia contemporanea. Nuova edizione aggiornata (Carocci editore 2022, pp. 440, euro 39)

Paolo Graziano, Neopopulismi. Perché sono destinati a durare, (Il Mulino 2018, pp. 120, euro 11) 

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