In Italia il fenomeno è vasto: il 35 per cento dei casi registrati riguarda persone dai 25 anni in su. Ma troppo spesso il problema è sottovalutato e poco diagnosticato, complicando l'accesso alle cure
Mina (nome di fantasia ndr) dice che vorrebbe fare tante cose, imparare bene l’inglese e viaggiare. Racconta che per tanto tempo ha dovuto sacrificare quello che desiderava, come quando ha rinunciato a studiare psicologia perché nell’università della sua città quella facoltà non era disponibile.
Adesso, invece, dice che sta cercando un lavoro che la faccia sentire libera, in cui «non debba subire» e che soprattutto le permetta di aiutare gli altri. Sta per prendere una laurea triennale in matematica, ma spiega che non è facile, perché sono materie difficili e spesso si sente stanca.
Mina ha 52 anni e soffre di disturbi del comportamento alimentare (dca) da quando ne aveva circa dodici. Racconta che a causa di diagnosi errate, sono passati anni prima di ricevere le cure adeguate. Il medico giusto l’ha incontrato a 49 anni.
E con la menopausa, e un corpo che cambiava, è diventato ancora più difficile gestire i suoi dca. «Anche perché raccontarlo è una tragedia», dice.
Secondo Mina, se sei un adulto con un disturbo dell’alimentazione non ti senti capito. «Pensano che sia un disturbo tipico adolescenziale», dice. «Sei in una voragine e nessuno ti tende una mano».
In Italia il 35 per cento degli affetti da disturbi del comportamento alimentare, per un totale di un milione e mezzo di persone, ha infatti dai 25 anni in su. E la loro condizione è tra le meno riportate.
I numeri dei dca
Secondo i dati del Ministero della Salute, solo tra il 2019 e il 2022 i nuovi casi di dca sono più che raddoppiati, per un totale ad oggi di tre milioni e mezzo di persone.
L’attenzione si è recentemente concentrata sui giovani, tra i quali si registra un rapido abbassamento dell’età di incidenza, con un aumento dei casi di anoressia anche tra gli 11 e i 13 anni. Ma ci sono categorie di persone colpite da disturbi dell’alimentazione che nel tempo sono rimaste poco considerate dalla narrazione sul fenomeno.
«C’è sempre stata una comunicazione mozzata sulla questione, nel senso che tantissime storie, proprio come quelle degli adulti, ce le siamo un po’ perse per strada», dice Aurora Caporossi, di Animenta, associazione non-profit che si occupa di dca. «Perché spesso se noi qualcosa non la raccontiamo, pensiamo che non esista».
Secondo gli esperti, infatti, esiste un ampio sottobosco di malati che, non arrivando mai a ricevere una diagnosi, si ritrova per tanti anni a convivere con un disturbo più o meno inconsapevolmente.
Caporossi racconta, ad esempio, che quando ha lanciato “Come stai”, una startup che fornisce servizi di terapia online per i disturbi alimentari, l’app ha registrato un’altissima richiesta da parte di persone adulte.
Questo accade anche perché la malattia è spesso invalidata da una scarsa divulgazione sul fenomeno tra i maggiorenni, spiega Caporossi. «L'adulto viene così lasciato alla sua responsabilità, che però molte volte quando c'è un disturbo alimentare di mezzo viene un po' meno, perché c'è una malattia psichiatrica alla base», aggiunge.
I disturbi tra gli adulti
Non è semplice individuare le motivazioni alla base di un dca poiché si tratta di patologie multifattoriali; devono quindi verificarsi contemporaneamente vari stimoli che fanno sì che la reazione della persona vada in quella direzione, spiega la dottoressa Sara Novero, consulente presso l’ambulatorio dca della Azienda socio sanitaria territoriale Santi Paolo e Carlo e presidentessa della onlus Nutrimente.
Nel caso degli adulti, uno di questi fattori è l’aver sofferto in passato di anoressia, bulimia o altri dca; questo può portare, continuativamente o dopo periodi di pausa medio-lunghi, a reiterare il comportamento nel corso di tutta la vita.
Magari favoriti da un’alimentazione scorretta o eventi particolarmente stressanti che scatenano una sorta di meccanismo di difesa o di conforto: il 70 per cento dei casi i dca negli adulti non sono altro che ricadute, spiega la dottoressa Novero.
E se il disturbo non è mai stato risolto del tutto nel corso degli anni questo significa che probabilmente nella persona affetta non c’è completa consapevolezza del problema. O del proprio diritto di chiedere aiuto.
Il legame che c'è tra cibo ed emozioni è infatti profondo, spiega Caporossi. «A volte il cibo diventa l'unico momento di sfogo, di piacere in una quotidianità che non riusciamo ad abitare, in un corpo che non ci piace, in una vita che non ci soddisfa», aggiunge. «Non basta un po’ di forza di volontà per smettere di farlo. E questo è ancora più difficile da spiegare quando si tratta di uomini in età adulta».
L’aspetto dell’accettazione è ancora più drammatico, infatti, nel genere maschile, in cui il fenomeno dei disturbi alimentari è statisticamente meno presente, ma anche scientificamente poco riconosciuto e rilevato rispetto al suo corrispettivo al femminile.
La ricerca, mancando spesso di una prospettiva intersezionale, prevede quindi a fatica la predisposizione a un disturbo della nutrizione e dell'alimentazione. Tutto rimane, così, nelle mani del malato e di chi gli sta intorno.
Perché per gli adulti è più difficile curarsi
Oltre ad avere dei riferimenti clinici con i quali confrontarsi, quello che può fare la rete familiare e amicale di un malato con più di 18 anni è solo sostenere e accompagnare la persona cara. A differenza dei minorenni, infatti, la decisione rispetto alle cure appartiene in ultima istanza all’adulto.
Questo rende ancora più complesso l’accesso all’assistenza professionale di questi utenti, che spesso rifiutano le cure per una scarsa percezione di gravità, oltre che da un senso di imbarazzo.
«Il senso di vergogna è una delle emozioni che i pazienti riportano maggiormente e più spesso», dice la dottoressa Novero. «Ciò contribuisce a uno dei principali problemi, che è il ritardo nel chiedere aiuto».
Secondo gli esperti, i primi quattro anni dalla comparsa dei sintomi sono anni preziosi. Se una persona riceve le cure da un'equipe multidisciplinare nel primo anno di storia della malattia, infatti, ha molte più probabilità di guarire. «E questo, in realtà, molte volte non accade», aggiunge la dottoressa Novero.
Oltre a un problema di coscienza di sé, infatti, l’accesso all’assistenza medica è ostacolato da un numero molto ridotto di centri in alcune zone del territorio. E in questi casi è ancora più facile che quei quattro anni passino senza ricevere alcun aiuto e, così, cronicizzando il disturbo.
Le mancanze strutturali
Se si ha un dca, ma si vive nel centro o sud Italia, sono infatti molte meno le probabilità di accedere in tempo a un'offerta sanitaria specializzata.
A fronte di una crescita esponenziale dei pazienti, i fondi nazionali stanziati per il contrasto ai dca hanno consentito di aumentare il personale negli istituti già esistenti e la creazione di nuove strutture, ma alcune regioni ne sono ancora gravemente sprovviste.
In Sardegna c’è solo un centro che offre assistenza residenziale 24 ore su 24. In Sicilia e Calabria neanche uno. In Molise non esistono strutture dedicate né alla riabilitazione intensiva residenziale né semiresidenziale.
Così l'utenza dei pochi centri di queste aree si compone da pazienti che viaggiano anche per centinaia di chilometri per raggiungere gli istituti. E il viaggio costituisce non solo un impatto economico, ma anche un costo psicologico che si aggiunge a una situazione psichiatrica già fragile. Tutti quelli che non possono permetterselo, emotivamente e finanziariamente, ne sono tagliati fuori.
Le possibili soluzioni
A gennaio il Fondo per il contrasto ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione era stato escluso dalla legge di bilancio, ma dopo l’allarme lanciato da regioni e associazioni del settore, il governo aveva fatto un passo indietro. Il fondo è stato così rifinanziato con dieci milioni di euro per tutto il 2024, a fronte dell'evidente necessità di supportare gli ambulatori multidisciplinari.
Garantire la disponibilità dei centri di assistenza, però, è solo una parte del diritto alla guarigione. Un passo fondamentale sarebbe implementare la comunicazione sul fenomeno, sia in senso di ricerca scientifica sia di formazione.
Secondo Aurora Caporossi, anche a prescindere da una remissione completa dei sintomi, è prioritario infatti almeno normalizzare l’esistenza di dca tra gli adulti e accorciare così la distanza tra la persona e l’ambulatorio. «Bisogna dare voce al silenzio, far capire attraverso altre esperienze che se sei grande e soffri di un dca, hai il diritto di essere curato e di migliorare al massimo la tua voglia di vivere», dice Caporossi.
«Forse guarire in alcuni casi è una parola grande, che fa paura anche al paziente, però nessuno può negare la possibilità che le persone si prendano cura di loro stesse», aggiunge.
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