Il 14 settembre, alla presenza del governatore della Lombardia Attilio Fontana, i ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano, guidati dal Prof. Giuseppe Remuzzi, hanno presentato uno studio che dimostrerebbe che le forme più gravi di Covid e la strage nella bergamasca sono dovuta al gene di Neanderthal. La circolazione massiccia del virus nella bergamasca ha favorito la strage, e non i geni del nostro antenato
Mercoledì 14 settembre, nel corso di un convegno ospitato dal presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, i ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano, guidati dal professor Giuseppe Remuzzi, hanno presentato i risultati di Origin, «un articolato studio di popolazione», dice con modestia l’ufficio stampa dell’Istituto, che è durato due anni e che ha analizzato la relazione fra i fattori genetici e la gravità del Covid-19 nella provincia di Bergamo, epicentro della pandemia.
Lo studio, che si intitola «Uno studio di associazione sull’intero genoma nell’epicentro pandemico evidenzia il locus di rischio di Covid-19 grave ereditato dai Neanderthal», ed è pubblicata sulla non tanto prestigiosa rivista scientifica online iScience, mostra che «una certa regione del genoma umano si associava in modo significativo col rischio di ammalarsi di Covid-19 e di ammalarsi in forma grave nei residenti in quelle aree più colpite dalla pandemia».
Detto più semplice, i ricercatori del Mario Negri hanno trovato che la maggior parte delle persone che si sono ammalate in maniera grave di Covid a inizio pandemia nell’epicentro infettivo di Bergamo e provincia, - che comprendeva Alzano e Nembro, due paesi dove il virus ha fatto strage – possiedono un “locus”, cioè un insieme di geni, ereditato dall’Uomo di Neanderthal, che li predisponeva a sviluppare la malattia grave.
I titoloni
Apriti cielo. I grandi giornali italiani hanno subito sparato titoloni: “Covid: la strage in Val Seriana favorita dai geni di Neanderthal” (Corriere della Sera); “Le forme più gravi di Covid e la strage nella bergamasca dovuta al gene di Neanderthal” (Repubblica); “Covid: l’esplosione in Val Seriana per i geni di Neanderthal” (Libero). Peccato che non sia vero nulla. Lo studio dei ricercatori del Mario Negri non dice affatto che la terribile pandemia nella Bergamasca è stata provocata dal gene di Neanderthal.
Lo studio dimostra solamente che a inizio pandemia, quando il virus del Covid ha circolato massicciamente a Bergamo e dintorni, ha ucciso soprattutto le persone predisposte geneticamente. Sai che scoperta. E invece non dimostra che il virus del Covid a inizio pandemia ha fatto più morti a Bergamo perché lì si concentravano persone che possiedono i geni predisponenti di Neanderthal. È la circolazione massiccia del virus nella bergamasca che ha favorito la strage (perché qualcuno doveva chiudere ospedali e fabbriche e non l’ha fatto, per dire), e non sono stati i i geni del nostro antenato.
Lo studio
Gli studiosi del Mario Negri scrivono: «L’Italia è stata il primo paese fuori dell’Asia a riportare casi di infezioni con una sindrome respiratoria acuta da coronavirus di tipo 2. Nella provincia di Bergamo, il primo caso ufficiale è stato riportato il 23 febbraio 2020 a Nembro, un piccolo villaggio di circa 11.000 abitanti, che a maggio 2020 registrò un aumento dell’850 per cento nel numero di morti. In breve tempo, Nembro, le città vicine e l’intera provincia furono note al mondo come l’epicentro della pandemia».
E poi si chiedono candidamente: «La domanda del perché il disastro del SARS-CoV-2 sopraffece la ricca provincia di Bergamo, con i suoi ospedali di livello top, rimane senza risposta. Probabilmente, l’epidemia fu di tali dimensioni che ogni altro sistema sanitario in Europa sarebbe stato sovraccaricato». Sarà colpa di Neanderthal. I ricercatori hanno reclutato 9733 abitanti di Bergamo e provincia, ai quali hanno fatto compilare un questionario: hanno chiesto loro se avevano avuto il Covid in forma grave, moderata o lieve, a chi aveva avuto il Covid chiedevano un test positivo di conferma.
Poi, hanno selezionato circa 1200 delle persone che avevano risposto al test, e le hanno suddivise in tre gruppi: 400 che hanno avuto un Covid grave, 400 un Covid lieve, e 400 che non avevano avuto il Covid. Poi, hanno sottoposto tutti a screening genetico, con una tecnica chiamata DNA microarray. E alla fine hanno scoperto che molti degli individui che si erano ammalati di Covid grave avevano tutti una serie di sei geni ereditati insieme (un cosiddetto aplotipo) dall’Uomo di Neanderthal.
Tre dei sei geni di questa regione si trovano sul cromosoma 3: sono i geni CCR9 e CXCR6, che servono a richiamare i globuli bianchi e causare l’infiammazione, e il gene LZTFL1, che regola lo sviluppo e la funzione delle cellule epiteliali nelle vie respiratorie. Voi direte: bravi! Solo che non hanno scoperto un bel niente.
Il precedente
Già nel settembre del 2020, il grande genetista svedese Svante Pääbo, premio Nobel per la Medicina per le sue ricerche di paleogenetica, aveva pubblicato su Nature, la rivista scientifica più importante al mondo, l’articolo dal titolo “Il maggior fattore di rischio per il Covid grave è ereditato dai Neanderthal”. Allora gli scienziati brancolavano nel buio, e non riuscivano a capire perché certe persone - soprattutto gli anziani - morissero di Covid e altri no.
Si sapeva il SARS-CoV-2 entra dal naso, penetra nei polmoni, e qui comincia ad infettare le cellule degli alveoli; l’infezione del virus richiama nei polmoni prima macrofagi, monociti e altre cellule dell’infiammazione, che secernono citochine, le quali richiamano ancora altre cellule dell’infiammazione che distruggono le cellule infettate dal virus; poi, dopo poche ore arrivano i linfociti B, che cominciano a produrre anticorpi contro il virus, e linfociti T, che uccidono le cellule infettate dal virus con grande precisione.
Nelle persone che sviluppano il Covid grave, le cellule dell’infiammazione secernono una tempesta di citochine che scatena una super-infiammazione che distrugge tutto il polmone - cellule infettate dal virus e cellule sane - e che porta spesso alla morte del paziente.
Pääbo e i suoi colleghi avevano scoperto che molti dei soggetti che morivano di Covid avevano tutti una serie di geni, tre dei quali sul cromosoma 3, che lui ipotizzò fossero coinvolti nella regolazione dell’infiammazione. Quindi, Remuzzi e i suoi colleghi non hanno scoperto un bel niente. È stato Pääbo a capire che i geni dell’uomo di Neanderthal predisponevano al Covid grave, difatti lui ha pubblicato su Nature, e Remuzzi no.
Poi, nell’ottobre del 2020 un ampio gruppo di scienziati ha pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine uno studio in cui identificavano vari geni che si associano ad un aumento del rischio di Covid grave, tra i quali erano compresi CCR9, CXCR6, e LZTFL1. Che sono proprio quelli – ehm - riscoperti adesso da Remuzzi e colleghi.
Nessuna dimostrazione
Quindi, Remuzzi e i suoi colleghi non hanno affatto dimostrato che il Covid a Bergamo ha fatto strage perché qui c’erano più persone portatrici dei geni di Neanderthal. Se avessero voluto dimostrarlo, avrebbero dovuto fare questo esperimento: prendevano un luogo dove il Covid all’epoca aveva fatto meno morti, Milano per esempio, e vedevano quante persone erano state infettate, quante avevano avuto il Covid grave, e quante delle persone malate gravi possedevano i geni di Neanderthal; poi prendevano un luogo dove il Covid all’epoca aveva fatto molti morti, come Bergamo per esempio, e vedevano quante persone erano state infettate, quante avevano avuto il Covid grave, e quante delle persone malate gravi possedevano i geni di Neanderthal.
Se avessero trovato che a parità di persone infettate si ammalavano gravemente più persone a Bergamo perché lì c’erano più portatori dei geni di Nanderthal, avrebbero dimostrato che la strage di Bergamo era provocata dai geni di Neanderthal. Magari invece trovavano che i portatori di geni di Neanderthal erano più numerosi a Milano, e questo avrebbe smentito la loro tesi. Peccato che questo esperimento si siano dimenticati di farlo.
Invece, il professor Remuzzi dovrebbe ricordare lo studio dal titolo “Le prime fasi della pandemia in Lombardia”, pubblicato da un gruppo di ricercatori della Regione Lombardia, guidati da Stefano Merler. Il 21 febbraio 2020, giorno in cui fu identificato il paziente zero, il famoso Mattia Maestri di Codogno, la Regione Lombardia li incaricò di capire quanto si fosse diffusa l’epidemia, e quei ricercatori in pochi giorni scoprirono che il paziente zero non era affatto il paziente zero, che il virus circolava già dal primo gennaio 2020, che aveva avuto il tempo di replicarsi liberamente per 60 giorni, che c’erano migliaia di lombardi già infettati, che c’erano focolai ovunque, compreso ad Alzano e a Nembro, e che bisognava chiudere tutto, ma nessuno fece nulla.
Scrissero: «L’epidemia in Italia è iniziata molto prima del 20 febbraio 2020. Al momento del rilevamento del primo caso di Covid-19 l’epidemia si era già diffusa ampiamente nella maggior parte dei comuni della Lombardia. Il potenziale di trasmissione del Covid-19 è molto elevato e il numero di casi critici può diventare in gran parte insostenibile per il sistema sanitario in un orizzonte di tempo molto breve». Era fine febbraio. Qualcuno che doveva prendere decisioni non le prese, altro che Neanderthal.
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