«Disillusi noi del Pd? Personalmente no, ma perché non mi ero mai illuso. Il nostro sostegno a von der Leyen non era frutto di una particolare affinità, ma del rispetto del principio democratico che noi, noi europeisti intendo, abbiamo sempre sostenuto, quello dello Spitzenkadidat: il Ppe ha vinto più degli altri, ed è stato giusto votare la loro candidata. La mancata nomina di Nicolas Schmit (Spitzenkadidat dei socialisti, ndr) è un primo vulnus. Ma che addirittura non vi sia nemmeno la figura del commissario al Lavoro rappresenta forse il segnale più chiaro dell’arretramento politico di questa Commissione».

All’indomani dell’annuncio dei nomi della nuova Commissione europea, quella di Peppe Provenzano – già ministro, oggi responsabile Esteri del Pd – non è una minaccia, ma un ragionamento. Pacato ma severo.

Non è una minaccia perché, per quanto socialisti e dem promettano un esame puntiglioso del dna europeista dei nuovi commissari, in particolare dell’italiano Raffaele Fitto ma non solo, è difficile se non impossibile immaginarne una bocciatura.

Spiega Provenzano: «I commissari se la vedranno nelle audizioni, mentre il voto sulla Commissione sarà frutto di una valutazione complessiva.

Quel che è certo è che Ursula von der Leyen ha di fatto allentato il vincolo con la sua maggioranza nel parlamento europeo. Ha preferito una Commissione sbilanciata sui governi e francamente non credo sia utile all’integrazione europea replicare gli assetti del Consiglio. Ora credo anche noi, noi del Pd e noi socialisti, dovremo riprenderci tutti gli spazi di libertà in parlamento per le nostre battaglie».

Gatto Scholz e volpe Sánchez

Provenzano si ferma qui. Il resto, però, è sotto gli occhi di tutti. È il magro bottino dei dem italiani, più magro di quello già scarso dei socialisti europei: 14 commissari Ppe, 5 liberali, 5 socialisti e uno Ecr. Innanzitutto è sotto gli occhi della segretaria Elly Schlein. Che dal principio, dalle elezioni di giugno, si è fidata, anche affidata, ai due uomini forti della famiglia socialdemocratica: il cancelliere tedesco Olaf Scholz e soprattutto il premier spagnolo Pedro Sánchez, alla cui pupilla Iratxe García Pérez ha lasciato il posto di presidente del gruppo S&D, benché spettasse al Pd, prima delegazione socialista al parlamento. Il tutto in cambio della promessa di una staffetta al valzer del midterm.

All’epoca Schlein aveva esultato con i suoi: «Tedeschi e spagnoli avevano fatto i conti senza di noi, abbiamo riaperto accordi considerati blindati».

Per l’elezione della presidente della Commissione, S&D ha affidato a Scholz e a Sánchez la delega di trattare per i socialisti. Il risultato è sembrato smagliante: fuori la destra dalla nuova maggioranza Ursula, dentro i Verdi. Ma il secondo tempo ha ribaltato il risultato. Nelle trattative i socialisti hanno spinto per ridimensionare la delega dell’italiano sovranista Fitto, cercando di “proteggere” la delegazione italiana che invece, a casa sua, sfidava la premier Giorgia Meloni a strappare una delega pesante dopo essersi messa fuori dalla maggioranza.

Von der Leyen è andata avanti. È vero che alla fine la delega di Fitto non è quella economica su cui aveva scommesso Meloni, ma fra riforme, fondi di coesione e Pnrr ce n’è abbastanza per farle cantare vittoria. I socialisti spagnoli ostentano irritazione. «Ribera, contrappeso progressista in una Commissione europea destrizzata», titolava ieri El País.

La verità è che la commissaria Teresa Ribera è il capolavoro di Sánchez: l’ex ministra spagnola sarà anche vicepresidente, e la sua delega all’ambiente è la «garanzia» – secondo la versione Psoe – che la strada del Green deal non prevede retromarcia. A lei la presidente von der Leyen affida il compito di recuperare i Verdi. Vasto programma.

Lontana da Ursula, vicina a Conte

Ora la segretaria Schlein è «delusa». I suoi, vicini e lontani dalle sue posizioni, spiegano che il Pd poco poteva pesare nel gioco dei candidati degli esecutivi: Scholz e Sánchez governano i loro paesi, Schlein è all’opposizione. E, viene spiegato, «non è vero che non abbiamo toccato palla, abbiamo fatto quello che era possibile, nelle condizioni date». Vero è che prima delle nomine il Pd si è trovato in una condizione paradossale: gli sherpa S&D trattavano per diminuire il peso di Fitto, mezzo gruppo Pd invece già gli dichiarava stima e voto favorevole, dal pugliese Antonio Decaro in giù.

Ma tutto sommato sono sfumature. Come saranno sfumature se la delegazione del Pd non dovesse risultare compatta al voto finale sulla Commissione. Spiegano che è prematuro parlarne, ma sarebbero distinguo già messi nel conto all’epoca delle «liste plurali» per le europee. Martedì sera, alla Stampa, la segretaria però già indicava una strada per trasformare il palo preso in Europa in un assist qui in Italia: «Saranno anni difficili, non bisogna perdere le innovazioni arrivate dopo la pandemia: noi su questo vigileremo. Difenderemo le nostre priorità e non ci faremo dare per scontati mai».

Il Pd voterà per la Commissione, ma sarà anche un po’ all’opposizione. E quindi si avvicinerà agli alleati M5s e rossoverdi, che non voteranno per von der Leyen e sono molto pessimisti sulla svolta a destra del secondo mandato. Ecco, dunque, forse, non tutti i mali europei vengono per nuocere al centrosinistra.

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