Nell’aula di Montecitorio, la cerimonia per i cento anni dall’ultimo discorso di Giacomo Matteotti è in pieno svolgimento quando Palazzo Chigi diffonde il comunicato della presidente del Consiglio.

In quel momento Giorgia Meloni è in aula, seduta al fianco del presidente del Senato Ignazio La Russa, alla cui sinistra, così vuole il cerimoniale, c’è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto come sempre da una cascata di applausi, fatalmente pieni di sottintesi.

Prima, insieme a loro, Meloni ha seguito il presidente della Camera Lorenzo Fontana, che li ha guidati alla mostra allestita in Transatlantico sul primo martire fascista – lettere, appunti, pagine di giornale – ha cantato l’inno d’Italia sorridendo alla Banda Interforze che lo suonava (dopo ha sorriso meno, è partito l’inno europeo), poi si è accomodata sulla sedia di pelle. Sorvegliando la mimica facciale. Sa di avere molti occhi puntati addosso. Come La Russa, che non ha sempre l’espressione convinta. Parla l’amico Bruno Vespa, fa il ritratto del Matteotti privato. Poi un filmato di Rai Cultura.

Delitto fascista, ma è la storia

È qui che arriva il comunicato. Questa volta non si fa aspettare fino a sera, come quello, sofferto, sull’anniversario della strage di Piazza della Loggia a Brescia, solo tre giorni fa.

«Matteotti difese la libertà politica, incarnata nella rappresentanza parlamentare e in libere elezioni», scrive la premier, «Oggi siamo qui a commemorare un uomo libero e coraggioso ucciso da squadristi fascisti per le sue idee». Per la prima volta in un testo ufficiale di Palazzo Chigi c’è un riferimento al fascismo. Era inevitabile, del resto.

«È la storia. Dumini, che guidava la squadraccia, era iscritto al partito fascista», dirà dopo ai cronisti, con finta ingenuità, l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini, il primo postfascista a dichiarare il fascismo «male assoluto» e anche il primo a chiedere a Meloni di non essere «ritrosa» a dichiararsi antifascista (lei non l’ha mai fatto, e non lo fa neanche in questa occasione).

Ha ragione Fini, naturalmente. Lo ribadisce Fontana introducendo la cerimonia: il segretario socialista è «uno dei padri della nostra democrazia, vittima dello squadrismo fascista». Matteotti fu ucciso per ordine di Benito Mussolini il 10 giugno, dopo il suo ultimo intervento alla Camera, il 30 maggio 1924, in cui denunciava la valanga di atti di squadrismo contro i candidati delle opposizioni alle ultime elezioni, delle quali chiedeva l’annullamento.

La premier, però, non rinuncia a una curiosa costruzione linguistica: «Onorare il suo ricordo è fondamentale per ricordarci ogni giorno (...) il valore della libertà di parola e di pensiero contro chi vorrebbe arrogarsi il diritto di stabilire cosa è consentito dire e pensare e cosa no». Chi? Qui si parla di fascismo. Eppure la condanna contro chi ha sbeffeggiato, minacciato, pestato, rapito e assassinato, oltreché condotto il paese nel baratro, con un condizionale si trasforma: da avviso a tutti i revisionisti del Ventennio che circolano in parlamento – tutti dalla parte destra dell’emiciclo, i rossoverdi denunciano troppe assenza da quel lato – a monito a chi «vorrebbe» discriminare.

Restano gli omissis

L’omicidio Matteotti dunque si trasforma, nella prosa della premier, quasi in una lezione per la parte politica da cui lui stesso proviene. Invece si sta parlando del dittatore che lei, certo da giovanissima, considerava «un grande statista»; e si sta rievocando l’avvento del fascismo e dei suoi protagonisti, alcuni dei quali tuttora nel pantheon di Fratelli d’Italia, in primis Giorgio Almirante, fondatore del Msi, che si dichiarò orgogliosamente ancora fascista ai tempi della democrazia e della Repubblica.

Si intravede anche un omissis nel comunicato presidenziale. L’umiliazione e poi, nel 1939, la soppressione del parlamento non sono scindibili dalla natura del fascismo, anche quello nascente. Certo, «tutte le dittature hanno un punto in comune, non tollerano i parlamenti», dice Luciano Violante, e «Matteotti comprese che il parlamento sarebbe stato destinato a un progressivo svuotamento, a differenza di altri partiti legati al mito del “Facciamo come in Russia”», parla del suo partito comunista.

Aggiunge generosamente, verso la maggioranza e il governo, che il rischio dei parlamenti è anche morire «per suicidio», se parlano ma non decidono. Poco prima lo storico Emilio Gentile invece aveva sottolineato un passaggio che dovrebbe suonare definitivo per quelli che “il fascismo ha fatto anche cose buone”: «L’assassinio aveva la sua origine nel regime stesso, aveva i suoi precedenti necessari in tutti i delitti politici commessi dal fascismo». In altre parole: il fascismo non è scindibile dalla violenza squadrista.

Per questo la giornata è storica in un parlamento la cui forza maggioritaria non riesce a fare i conti con il suo passato. Fontana annuncia una targa sullo scranno dove Matteotti «pronunciò il discorso che gli sarebbe costato la vita». Non sarà più assegnato ad alcun deputato. Il presidente ha accolto la proposta di Alleanza verde sinistra, a cui era dato il posto, il numero 14, il primo della quarta fila all’estrema sinistra. Fin qui lo ha occupato il deputato Devis Doris, è stato lui stesso a proporre di spostarsi. Da lì ieri uno strepitoso Alessandro Preziosi ha letto l’ultimo discorso del leader socialista: le sue parole, ma insieme le interruzioni, le minacce, l’ignavia del presidente della Camera, il fascista Alfredo Rocco, quella chiusa rivolta a lui che gli intimava prudenza, «Signor presidente, io chiedo di parlare né prudentemente né imprudentemente, ma parlamentarmente».

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