Giorgia Meloni ha un problema che la preoccupa molto di più delle vicende del bancario curioso di Bitonto, dei voti che non si trovano per eleggere il suo candidato alla Consulta o la presidente della Rai. Si chiama Giancarlo Giorgetti e nei prossimi due mesi avrà il telefono bollente. È tempo di manovra, un momento mai facile per i governi, ma quest’anno si preannuncia più complesso del solito. Non soltanto per le risorse difficili da trovare, rendendo per Meloni complesse da soddisfare le richieste degli alleati; né solo perché si tratta della prima manovra scritta senza le indicazioni di Mario Draghi e con i nuovi vincoli di bilancio europei. È complessa soprattutto per il piglio deciso del ministro dell’Economia, a galla sempre più di frequente.

In un raro momento in cui si è aperta una breccia nel suo aplomb, il ministro ha condiviso con l’agenzia Bloomberg la notizia di aver ripreso l’abitudine di fare una nuotata prima di raggiungere il ministero. Un dettaglio che sembra aver reso il suo stile – mai sopra le righe, sempre un passo indietro rispetto agli slogan dei suoi colleghi di partito e di coalizione – ancora più sobrio, nonostante ricopra uno degli incarichi più complessi nella compagine di governo e forse in tutta la politica italiana. Ma sobrio non significa remissivo, anzi.

Lotta solitaria

Giorgetti è l’ultimo draghiano in parlamento (pentito, dopo che il suo partito lo ha sfiduciato nel 2022), tira dritto con una convinzione degna degli ultimi giapponesi nella giungla. Dieci giorni fa ha anticipato che la manovra porterà «sacrifici»: il primo è stato l’ammissione che le accise sul gasolio saliranno, con effetti devastanti su chi ha acquistato il diesel contando sullo sconto. Un siluro che ha costretto la presidente del Consiglio – dopo aver informato Giorgetti – a rassicurare gli elettori con un video social e un’intervista al Tg5 sulle intenzioni del governo di non alzare le tasse. Venerdì si è rivolto ai suoi colleghi: «I ministeri taglino oppure farò la parte del cattivo».

Nessuno dubita che la farà senza tentennare. Giorgetti non ha più niente da perdere. Il suo partito, ormai definitivamente piegato all’oratoria più nera che verde di un Matteo Salvini alla costante rincorsa del generale Vannacci, sempre un passo più a destra del suo segretario, ha poco a che fare con la Lega di cui ha preso la tessera oltre trent’anni fa. Gli rimangono vicini quei dirigenti leghisti sparsi tra parlamento, enti e partecipate che ancora ragionano come lui e al ministero può contare sul sottosegretario Federico Freni, romanissimo ma che del ministro condivide lo stile minimalista.

E poi, l’esecutivo. Giorgetti si muove in una compagine di governo ostaggio delle paranoie politiche della premier e della sua famiglia-partito. Trincerata a palazzo, Meloni è alla ricerca di un successo da presentare al suo elettorato e sa bene che non può trovarlo tra le righe dei bilanci nazionali: da lì al massimo arriveranno nuovi malumori.

Dai ministeri costretti da Giorgetti a una cura dimagrante (si parla di una riduzione delle spese di circa 3 miliardi) ai parlamentari che dovranno fare i conti con una flessibilità molto minore per quanto riguarda le richieste per le cosiddette “mancette”, quei fondi assegnati con una pioggia di emendamenti a favore di questo collegio o quella lobby.

Ma a Giorgetti certi mal di pancia interessano relativamente, raccontano. Lavora nella consapevolezza che quando Meloni ha scelto Raffaele Fitto come prossimo commissario europeo, Salvini ha scelto di non combattere la sua battaglia. Al ministro la prospettiva di un incarico continentale non sarebbe dispiaciuta, anzi. «E anche la sua linea draghiana-filoeuropea avrebbe creato al governo italiano molte meno questioni di quante ne affronterà Fitto» dice chi conosce bene entrambi. Il meloniano, infatti, continua a dover fare i conti con lo stigma dell’appartenenza a un partito nato dalle ceneri del Msi. Un biglietto da visita che a Bruxelles difficilmente scalda gli animi.

La legge di Bilancio

E invece, alla fine Giorgetti si troverà a firmare la legge di Bilancio anche quest’anno. Deciso però a darle la piega che vuole lui, più improntata a rimettere in sesto i conti che ad assecondare i proclami populisti della maggioranza. E alla fine la premier dovrà scendere a patti con alcune proposte del ministro, anche se fanno male. Sa di non poter applicare con lui quell’atteggiamento accentratore che tende a utilizzare nei confronti degli altri ministri, soprattutto quelli del suo partito.

Anche perché, dice qualcuno, «dove lo troviamo un altro come lui?» La prospettiva di tornare nelle sue valli varesotte e vivere una vita tranquilla con qualche occasionale emozione per un gol del suo Southampton è sempre lì, a portata di mano, e non lo lascerebbe deluso. Difficile invece che la destra abbia a portata di mano qualcun altro pronto a fare i conti con un incarico che fa tremare i polsi come la gestione del bilancio dello stato.

In questo clima da liberi tutti Giorgetti scrive la sua manovra, e gli altri non possono che pendere dalle sue labbra. Nonostante Antonio Tajani ci tenga a ribadire che «non c'è uno che la scrive e gli altri che l'approvano» da Forza Italia guardano con grandissima attenzione all’operato del ministro leghista.

Le dita negli occhi reciproche, in una fase in cui i due alleati minori sono sul piede di guerra, non mancano: «È giusto ed equo che siano i banchieri, ora, a contribuire per redistribuire la ricchezza e favorire non solo le classi meno agiate del paese ma anche la crescita economica» dice Andrea Crippa, vicesegretario leghista addetto a restituire il pensiero di Salvini senza la moderazione a cui lo costringe il suo incarico.

«Tassare gli extraprofitti è da Unione sovietica» risponde a tono Tajani, assicurando che Forza Italia non permetterà che la norma arrivi a dama. La manovra non è ancora nemmeno stata incardinata in parlamento, ma quella è la misura che la famiglia Berlusconi teme di più. L’altra questione aperta è quella del taglio al canone Rai – possibilmente senza le compensazioni dalla fiscalità generale su cui alla fine si è trovato il compromesso l’anno scorso – che la Lega continua a evocare in maniera ciclica. Una Rai pienamente presente nel mercato della pubblicità non piacerebbe a Mediaset, ma il taglio del canone non entusiasma neanche i Fratelli.

Ma questi sono solo ragionamenti preliminari. Nessuno esiterà a tirare Giorgetti per la giacca. Il ministro però procede dritto come un fuso, con pochissimi riguardi per i suoi interlocutori italiani. Decisamente più probabile che invece ne tenga qualcuno in più per quelli che siedono a Bruxelles.

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