Il 12 settembre 2023, Giorgia Meloni era sul palco dell’assemblea nazionale di Fratelli d’Italia. «Si è parlato di Arianna Meloni, militante da quando aveva 17 anni, sempre penalizzata dal fatto di essere mia sorella».

Quel giorno i fari erano accesi sull’allora nuovo ruolo della Meloni maggiore, appena diventata capo della segreteria politica. Ma mentre la premier difendeva a spada tratta sua sorella, a Bitonto, un dipendente di Intesa San Paolo - responsabile di oltre 7mila accessi abusivi a dati bancari riservati - stava spulciando proprio le informazioni private di Arianna Meloni.

Con moltissima cura: secondo le informazioni registrate dal sistema di controllo, infatti, quello di Meloni senior sarebbe tra i conti correnti su cui l’indagato avrebbe passato più tempo, spulciando davanti al pc, verso a ora di pranzo, mesi di transazioni economiche, pagamenti e movimenti bancari di una delle figure politiche più rilevanti del partito. Perfino sulla premier l’accesso è stato più breve.

Al secondo posto, come tempistica, c’è Enrico Letta, i cui dettagli privati sono stati approfonditi a febbraio 2022, quando ancora c’era il governo Draghi. L’inchiesta va avanti alla ricerca di possibili mandanti, ma Intesa intanto ha cambiato il chief security officer: Carlo Messina proporrà al Cda della banca, previsto per la prossima settimana, la nomina del generale di corpo d'armata dei Carabinieri Antonio De Vita.

Se l’inchiesta di Perugia sulle fughe di notizie del tenente Striano non aveva toccato Palazzo Chigi, la vicenda di Bari riguarda invece tutta la famiglia del presidente del Consiglio. Che teme che il bancario non sia affatto un soggetto ossessionato dai dati dei vip, ma che possa essere punta di un complotto ai suoi danni. In un contesto che - tra chat di parlamentari «infami» che finiscono sui giornali e scontri tra ministri su ipotetiche manovre dei servizi (clamoroso quello tra Guido Crosetto e Alfredo Mantovano in merito al capo dell’Aise Giovanni Caravelli) - inizia a farsi pesante.

Ora, al pubblico arriva soltanto una minima quota dell’irritazione della premier. Il momento tanto temuto di una manovra da affrontare con pochissimi margini è arrivato, gli alleati continuano ad agitarsi e presentare pretese e in parlamento ogni volta che un provvedimento non è protetto dal voto di fiducia la procedura si blocca, come nel caso dell’elezione del giudice per la Consulta oppure la vicenda della presidenza Rai. A poco serve l’apertura della segretaria dem Schlein, che offre la sponda per un confronto perché «per l'interesse nazionale, noi siamo sempre disponibili a un dialogo nel merito», come ha detto al Foglio.

E poi, la giustizia e i presunti dossieraggi. In Meloni, racconta chi le sta vicino, si sta riaffacciando la sindrome della persecuzione costante che è uno degli aspetti distintivi della classe dirigente nera. Anche perché all’avversario che la presidente percepisce ovunque non si riescono a dare contorni precisi: «C'è qualcuno in Italia che non ha accettato di aver perso le elezioni. Qualcuno cerca in tutti i modi, anche illegittimi e scorretti di provare a condizionare o a ribaltare il risultato elettorale» ha detto ieri Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione di partito. Un’accusa forte per un membro del Copasir.

Ma per Meloni anche del suo partito non c’è più da fidarsi, dopo che le chat di gruppo sono state passate ai giornali. Lo sfogo-minaccia di qualche giorno fa, quando Meloni prometteva ai suoi che alla fine avrebbe mollato per episodi come quello dell’«infame» che aveva diffuso gli screenshot, è dunque qualcosa di più di una semplice lavata di capo. «Stanca, logorata, sul punto di mollare, anche psicologicamente», la descrive una sua vecchia conoscenza che di recente è stata ammessa a frequentare palazzo Chigi.

La premier sta valutando di mollare tutto, ma solo per rilancare: portare il paese al voto prima della fine della legislatura e incassare finalmente il grande consenso che le attribuiscono i sondaggi. I due partner di governo sarebbero ulteriormente ridimensionati, le opposizioni, perse nelle ripicche reciproche, difficilmente riuscirebbero a insidiarla. Almeno nei prossimi mesi.

C’è chi nell’entourage di Meloni spinge per una soluzione già alla fine del 2025, ma più di qualcuno considera la manovra fin troppo rischiosa: «Alle elezioni sai come arrivi, mai come ne esci» è il ragionamento. Meloni minaccia ma – almeno per il momento – non passa mai all’azione.

Ha bisogno di un successo da portare a casa: non può essere la manovra, il cavallo di battaglia del premierato è stato messo da parte e i cpr accumulano ritardi su ritardi. Ci vuole qualcos’altro, di cui la premier è alla disperata ricerca. Altrimenti, resta la exit strategy.

© Riproduzione riservata