Per i cronisti la scelta se rimanere o andarsene dai teatri di guerra è sempre molto complicata e deve tenere conto di diversi fattori. Perché oltre a stare boots on the ground bisogna anche avere i piedi per terra
I giornalisti vanno dove spesso nessun altro può. È la storia del giornalismo da quando William Howard Russel, il primo corrispondente di guerra dell’èra moderna raccontò la guerra di Crimea per il Times.
Da allora si fa di tutto per essere nel posto giusto e al momento giusto. I recenti avvenimenti mi spingono a una riflessione a partire dalle mie esperienze personali. Arrivai a Beirut nel 1986 celato in una delegazione di drusi che sosteneva il generale Aoun o a Tirana durante la guerra civile del 1996 a bordo di un Chinook americano mentre tutti gli stranieri, compresi i giornalisti, venivano evacuati in direzione opposta o ancora a New York, dopo aver attraversato a piedi il Rio Grande, a poche ore dall’attentato dell’11 settembre.
In Iraq nel 2003 entrai, la sera stessa dell’inizio dei bombardamenti su Baghdad, attraverso il confine iraniano (grazie, alla provvidenziale telefonata di Lucia Annunziata che, appena nominata presidente della Rai mi diede l’ok per entrare in Iraq). Arrivare e presto è parte del lavoro, anche quando le norme convenzionali di prudenza consiglierebbero di lasciare la zona di guerra.
È proprio questa la caratteristica del nostro lavoro, pur essendo protetti dalle Convenzioni di Ginevra, i giornalisti sanno che devono fare di necessità virtù, whatever it takes per raccontare da vicino lo svolgersi di eventi bellici.
Negli anni, nelle aziende editoriali è cresciuta la consapevolezza dei rischi e tutti si sono attrezzati con specifiche assicurazioni che coprono rischi speciali come appunto quelli bellici, corsi di addestramento. Giacche antiproiettile e casco anti-balistico sono diventati pressoché la norma. Editori internazionali come Al Jazeera, Bbc, Cbs, Cnn, Nbc hanno dotato i loro corrispondenti di sostegni tattici, spesso ex membri delle forze speciali, in grado di consigliare a superare indenni i momenti più difficili. E sono proprio i costi crescenti a diventare il discrimine: conviene andare o no?
Calcolo del rischio
Decidere quanto sia utile e necessario assumere un eventuale rischio, fa parte del lavoro. È un mindset, una mentalità che si acquisisce con l’esperienza e che si gioca psicologicamente anche evitando come la peste il rischio che l’ambizione professionale (caratteristica che pure ha un suo inevitabile ruolo tra chi fa questo mestiere) prenda il sopravvento.
Evitare la spettacolarizzazione, ad esempio, può essere una buona norma di comportamento: inutile e pericoloso mettersi in scena quando ciò non sia utile al racconto, inutile e dannoso utilizzo di aggettivazioni eccessive usate dall’una o dall’altra parte in conflitto.
Per questo, la condizione di embedded è forse una delle più delicate: evitare ad esempio che aver accettato di viaggiare su un blindato possa costituire pretesa di fornire un report favorevole ad una delle parti in causa. Indipendenza, prima di tutto, evitando che le parole costituiscano indizio di aderire alla propaganda di una delle parti.
La guerra in Libia
Questo breve diario di guerra e giornalismo non può non concludersi con un episodio particolarmente adatto a spiegare l’inevitabile e difficile dialogo tra necessità professionali e rischi: Libia 18 marzo 2011, i francesi avevano appena fatto trapelare che il giorno successivo sarebbero iniziati i bombardamenti su Tripoli. Facevo parte del gruppo di giornalisti internazionali che dal 17 febbraio raccontava la crescente rivolta anti-Gheddafi. La Farnesina emette un comunicato per chiedere il richiamo di tutti, giornalisti compresi.
Un C130 dall’aeroporto di Tripoli sarebbe decollato il giorno dopo alle 7 di mattina con tutto il personale dell’Ambasciata. La telefonata dell’allora direttore del Tg1 arrivò perentoria: «Devi salire su quell’aereo». Rimanere ovviamente implicava dei rischi, ma permetteva di raccontare la storia. Tutti i giornalisti internazionali sarebbero rimasti. Convocai una riunione tra i colleghi italiani: tutti avevano ricevuto quella telefonata altrettanto perentoria dai rispettivi direttori.
Espressi la mia volontà di rimanere: eravamo alloggiati in un hotel che, pur a breve distanza da Bab-al-Azizia, il quartier generale di Gheddafi, era ben conosciuto e identificato.
Il rischio che fosse colpito per errore era dunque molto remoto e le autorità libiche ci avevano garantito incolumità (promessa che poi, a onore del vero mantennero). Il consiglio notturno maturò i suoi frutti e la decisione di rimanere fu condivisa dai colleghi del Corriere, del Giornale e di Repubblica.
Il messaggio di questa breve cronistoria è che la quantità e la varietà di elementi da considerare per prendere la giusta decisione è talmente ampia che qualunque decisione debba tenere in conto l’importanza della storia da raccontare e la sicurezza.
Ovviamente, chi ha i “boots on the ground” è nella migliore posizione per giudicare: ciò non significa eccitarsi per l’odore della polvere da sparo, ma invece impegna ad avere “i piedi per terra”. Perché non c’è storia che merita di essere raccontata quando ciò implichi il rischio concreto di non poterla raccontare mai più.
A proposito, quasi dimenticavo il finale della vicenda libica: mentre il C130 decollava, dopo aver contravvenuto all’ordine di evacuazione, fui chiamato in diretta per l’edizione del mattino. Rimasi, unico corrispondente Rai, per i successivi tre mesi, a seguire gli eventi della guerra in Libia.
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