Gli alleati sono infuriati per le continue mosse in solitaria della premier. La vicenda Belloni conferma che la “fiamma magica” non fa prigionieri
Il pianeta Musk non piace a tutti nel governo. Mentre a palazzo Chigi si affannano a fornire smentite di facciata sull’accordo con l’imprenditore sudafricano per l’uso dei satelliti Starlink, dall’altra parte l’interlocuzione è ben avviata.
Da mesi è in corso la valutazione su una tecnologia «avanzata e meno costosa rispetto ad altre», è il discorso che va per la maggiore nell’esecutivo. Una dinamica che suscita reazioni infastidite dentro Forza Italia: tra i partiti di maggioranza è l’unico a non aver subito la fascinazione dell’inventore della Tesla e proprietario di X.
Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato di FI, è uno degli alfieri degli anti-Musk: «Bisogna tassare lui e i giganti del web», ha ripetuto fino a qualche giorno fa. Ma ancora più significative sono le parole del deputato Raffaele Nevi, spesso fedele interprete del pensiero di Antonio Tajani: «Bisogna essere molto attenti e valutare bene la nostra convenienza e la riservatezza dei dati sensibili», ha detto Nevi.
Una presa di posizione pubblica, che è in realtà solo un pezzo dei timori esposti in privato.
Tra gli azzurri c’è la preoccupazione che legarsi agli umori di Musk possa essere un errore strategico. «Altro che libero mercato e concorrenza», è il ragionamento.
Lo spazio di Salvini
E se gli eredi politici di Silvio Berlusconi invocano cautela per molteplici ragioni, la Lega ha avviato la competizione a chi è più muskiano nel governo. «Sono fiducioso che il governo andrà avanti in questa direzione», ha scritto in un post Matteo Salvini, che spinge per siglare il contratto da un miliardo e mezzo di euro con la società di Musk, che a sua volta ha colto l’assist del leader leghista. «Altri paesi europei lo chiederanno», è stata la risposta entusiastica.
La fuga in avanti come stile di vita o, meglio, di comunicazione. Il Pd ha avuto gioco facile a incunearsi nelle incongruenze del governo con Salvini che nei fatti smentisce la smentita di palazzo Chigi sull’accordo con SpaceX (la società che gestisce i satelliti).
«La corsa della destra italiana al bacio della pantofola all’uomo più ricco del mondo starebbe assumendo tratti ridicoli, se non fosse che in gioco ci sono la sicurezza nazionale, i soldi dei cittadini italiani e i loro dati sensibili», ha detto la segretaria dem, Elly Schlein. Da qui il rilancio: «La presidente del Consiglio riferisca in parlamento».
Fatto sta che Giorgia Meloni si muove sempre più come la donna sola al comando, un po’ come il Fausto Coppi che descriveva Mario Ferretti nelle leggendarie radiocronache del Giro d’Italia. Dal dialogo con Musk alla gestione del caso-Sala, fino al controllo dei vertici dei servizi segreti, la premier è in fuga solitaria. Per restare nella metafora ciclistica, conta solo su pochi fidatissimi gregari. Solo che, come insegnano i conoscitori del ciclismo, è difficile essere in fuga, da soli, troppo a lungo.
I compagni di viaggio Salvini e Tajani, al netto delle divergenze su Musk, sono uniti dall’irritazione nei confronti della premier. Il viaggio-lampo da Donald Trump non è stato digerito. E per rincarare la dose nel consiglio dei ministri, previsto per domani alle ore 18, Lega e Forza Italia saranno messi di fronte a una scelta già assunta negli uffici di Meloni e del sottosegretario con delega ai servizi, Alfredo Mantovano.
La nuova guida del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), l’organismo di coordinamento dell’intelligence, è una partita giocata nelle stanze di Fratelli d’Italia.
Fiamma che scotta
Ma le dimissioni di Elisabetta Belloni dalla direzione del Dis hanno acceso una spia. Sono state la conferma della sostanziale impossibilità di figure esterne a rapportarsi con il mondo meloniano. Eppure la diplomatica, fino a qualche mese fa, era elogiata da Meloni per il ruolo di sherpa del G7. Sembrava destinata a un futuro radioso, invece è caduta rapidamente in disgrazia, invisa a buona parte dei Fratelli d’Italia, i meloniani duri e puri alla Mantovano. Troppo esterna alla galassia di FdI.
«Non ci si può fidare», era il mantra. II sottosegretario l’aveva messa nel mirino da tempo, come aveva già raccontato Domani nel novembre 2023.
L’intenzione, all’epoca, era di spostarla a palazzo Chigi a capo dell’ufficio diplomatico per lasciare libera la casella del Dis su cui Mantovano ha messo gli occhi fin dal giorno dell’insediamento. L’operazione non è andata in porto in quell’occasione e appunto Belloni ha ripreso quota come factotum di Meloni per il G7 di Borgo Egnazia.
Un appuntamento che la premier ha giudicato come un successo. Per questo ha cercato di tenere Belloni al suo fianco, consapevole che il mandato al Dis sarebbe comunque scaduto a maggio, come ministra degli Affari europei. Missione fallita. Chi si avvicina troppo all’inner circle della fiamma resta scottato. Da qui il deterioramento e la protezione arrivata dall’ex presidente del Consiglio, Mario Draghi, che l’ha sponsorizzata nella commissione europea.
Per la successione di Belloni, l’opzione più quotata resta quella di Bruno Valensise, approdato ad aprile scorso al comando dell’Aisi (i servizi interni), che metterebbe d’accordo un po’ tutti sul piano politico.
Ci sarebbe però bisogno di trovare un sostituto al vertice dell’agenzia dove appena pochi mesi c’è stato l’avvicendamento (per la scadenza del mandato di Mario Parente).
Il nome più gettonato per l’Aisi è quello di Mario Cinque, da poco vice comandante dei carabinieri, che era in lizza per il ruolo da numero uno dell’Arma (la scelta è ricaduta su Salvatore Luongo). A Mantovano non dispiacerebbe affatto. Anzi.
Ma c’è anche la candidatura di Vittorio Rizzi, attuale vicedirettore dell’Aisi. E non è scartata l’ipotesi di Francesco Paolo Figliuolo, fresco nomina alla vicedirezione dell’Aise: nel governo ha una folta schiera di estimatori, a cominciare da Meloni.
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