- Storicamente l’elezione del presidente della Repubblica è guidata da una logica politica nazionale. Tuttavia questa volta i delegati regionali che completano le camere in seduta comune potrebbero essere determinanti.
- Dopo la pandemia, i presidenti delle regioni sono diventati politici di rilievo nazionale e a Montecitorio saranno presenti i due competitor dei segretari di Lega e Pd, il veneto Zaia e l’emiliano Bonaccini.
- La loro posizione peserà nella dinamica dei gruppi, che si confronteranno in vista del voto segreto. Il peso delle regioni ha un precedente storico: nel bis di Napolitano, il presidente spiegò che a fargli accettare la rielezione furono le spinte quasi unanimi dei rappresentanti dei territori.
L’elezione del presidente della Repubblica è storicamente guidata da criteri politici nazionali. Nel febbraio 2022, invece, i delegati regionali potrebbero giocare un ruolo autonomo e soprattutto determinante, nel segreto delle riunioni che decideranno il nome del prossimo capo dello Stato. Una sorta di partito occulto dentro i loro partiti, con un peso rilevante nelle scelte in particolare nelle due forze che esprimono più delegati regionali: la Lega e il Partito democratico.
Questa rottura della tradizione repubblicana è frutto di un’evoluzione carsica del nostro sistema politico, che ha iniziato a determinarsi a partire dal 2001, con l’approvazione della riforma del titolo V della Costituzione e il rafforzamento del ruolo delle regioni. A vent’anni di distanza e soprattutto dopo due anni di pandemia in cui le regioni hanno avuto un peso come mai prima anche sui media, i governatori hanno acquistato un ruolo sempre più significativo anche sulla scena politica nazionale: i loro volti sono ormai conosciuti anche fuori dai loro territori, le loro prese di posizione hanno inciso sulle scelte del governo e alcuni di loro – l’emiliano del Pd, Stefano Bonaccini e il veneto leghista Luca Zaia – sono i possibili futuri segretari nazionali dei rispettivi partiti.
Proprio loro non si faranno scappare l’occasione di prendere parte alla votazione più importante dei prossimi sette anni. E di provare a incidere sulla dinamica che ne determinerà l’esito.
Per capire le ragioni della loro influenza è necessario rifarsi alle tre regole cardine che guidano il risiko dell’elezione del capo dello Stato. Non esistono candidature, ma i nomi dei quirinabili calano nell’aula come una sorta di spirito santo che ispira i votanti. Non c’è dibattito, ma ogni votazione è determinata dalle riunioni segrete o dai capannelli nell’anticamera di Montecitorio. Il voto è segreto, quindi non c’è modo di conoscere nominalmente chi ha rispettato i patti e chi no.
Questi elementi rendono l’elezione dell’inquilino del Colle non governabile secondo le normali regole d’aula e costringono i partiti a cercare ampi consensi che coinvolgano un numero consistente di parlamentari, il momento centrale delle decisioni è quello del dibattito interno ai gruppi parlamentari estesi e il pur piccolo drappello di rappresentanti dei territori non rimarrà silenzioso.
Chi li sceglie
Secondo tradizione, i delegati regionali che integrano il parlamento in seduta comune si siedono tra le file delle rispettive affiliazioni partitiche nazionali e votano come da indicazione dei gruppi. L’articolo 83 della Costituzione fissa le regole per nominarli: tre per regione ad eccezione della Val d’Aosta che ne indica uno solo, sono eletti dal consiglio regionale in modo che sia rispettata la rappresentanza delle minoranze. In questo momento le regioni amministrate dal centrodestra sono 14 (una è la Valle d’Aosta) più la provincia di Trento, mentre quelle di centrosinistra sono 5. Quindi, dei 59 delegati regionali, almeno 35 saranno di centrodestra e si andranno a sommare ai 945 parlamentari e ai 6 senatori a vita ancora in carica.
Per citare solo i nomi più noti di chi con ragionevole certezza andrà a implementare i rispettivi gruppi parlamentari, saranno in trasferta a Montecitorio il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini e quello del Veneto Zaia, ma anche il democratico “eretico” della Puglia, Michele Emiliano, il ligure Giovanni Toti, il vulcanico presidente della Campania Vincenzo De Luca e l’ex segretario dem e governatore del Lazio Nicola Zingaretti.
Tutti loro, se si alzeranno a parlare nelle rispettive riunioni di gruppo, verranno ascoltati (e seguiti) più di un qualsiasi parlamentare di fila e la loro opinione sarà considerata – per grado di influenza – al pari di quella dei leader nazionali.
Anche perché bisogna immaginare la composizione spuria di queste assemblee estese e prive di dinamiche interne consolidate, visto che sommano deputati e senatori che di solito si riuniscono separatamente, integrati appunto dal corpo politico nuovo di governatori e amministratori locali. Un mix sui generis, che può facilmente subire la forza delle leadership territoriali.
Anche perché sia il segretario del Pd Enrico Letta che quello della Lega Matteo Salvini si troveranno seduti accanto ai quelli che sulla carta vengono considerati i loro prossimi competitor: Bonaccini e Zaia, in quello che potrebbe trasformarsi in un confronto di leadership sulla partita più delicata. Un confronto che potrebbe essere di sobrio coordinamento, ma con la tensione di ciò che potrebbe succedere se uno di loro contestasse la linea del segretario.
Il precedente
La presenza sulla scena politica nazionale dei rappresentanti delle regioni non è mai stata così forte, ma il punto di snodo fondamentale che ne ha per la prima volta legittimato il ruolo risale all’aprile 2013, nei giorni che hanno preceduto la seconda elezione del presidente Giorgio Napolitano.
I costituzionalisti fissano il punto di svolta in un comunicato stampa diramato dal Quirinale nei giorni drammatici delle cinque votazioni a vuoto per eleggere il successore di Napolitano, in cui ha dato conto di aver incontrato, dopo i partiti politici, anche «un’ampia delegazione dei presidenti delle Regioni».
Nel suo discorso di insediamento, un passaggio è stato colto come la certificazione del ruolo determinante avuto dai governatori locali nella sua decisione di acconsentire al secondo mandato. I presidenti delle regioni «mi sono apparsi particolarmente sensibili alle incognite che possono percepirsi al livello delle istituzioni locali, maggiormente vicine ai cittadini». Inoltre, ha aggiunto Napolitano, «è emerso da tali incontri un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento in seduta comune nell'inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell'elezione del Capo dello Stato. Di qui l'appello che ho ritenuto di non poter declinare - per quanto potesse costarmi l'accoglierlo - mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del paese».
Per Napolitano, quindi, la scelta di proseguire l’incarico non è stata determinata da dinamiche parlamentari, ma da una decisione istituzionale ispirata soprattutto alla richiesta trasversale proveniente dai territori.
L’incognita politica
Ecco, allora, la possibile mossa politica dei governatori regionali: potrebbero essere di nuovo loro, come è già stato per Napolitano, a esercitare la pressione istituzionale necessaria perché Mattarella cambi idea sull’ipotesi del bis. Il presidente sembrerebbe immune alle richieste dei partiti (anche se in particolare il Pd è fiducioso di poterlo convincere) e se fossero le Regioni a convincerlo il peso politico dei governatori aumenterebbe ulteriormente. Di più, sarebbe quasi una vittoria politica interna ai rispettivi partiti.
L’iniziativa, però, dovrebbe essere trasversale di tutti i presidenti di Regione e prescindere dai rispettivi colori politici ed essere sostenuta da motivazioni solide di tenuta istituzionale del paese. Il che sarebbe possibile, considerato che tutte le regioni hanno come obiettivo la ripresa economica e l’investimento sui territori dei miliardi del Recovery fund, che solo una stabilità istituzionale e vertici riconosciuti anche in Europa garantirebbero.
Certo è che, se le rappresentanze regionali si spendessero per chiedere il bis di Mattarella, il vero sconfitto rischierebbe di essere Matteo Salvini. Il leader della Lega sembrerebbe propendere, almeno per ora, per la soluzione di Mario Draghi al Quirinale nell’ottica del voto anticipato e di capitalizzare il consenso elettorale che i sondaggi gli attribuiscono. Allora sarebbe uno smacco se, proprio nelle elezioni al Quirinale in cui il suo centrodestra ha la maggioranza dei delegati regionali, fossero proprio le regioni a far saltare il suo schema. Perchè questo succeda, però, sono determinanti le scelte di Zaia, che da tempi non sospetti dice che «dopo il Covid ci vuole stabilità». L’esatto contrario delle urne.
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