Il governo Meloni ha un problema verticale e uno orizzontale. Il primo si snoda nel rapporto tortuoso con la presidenza della Repubblica. Per tutto l’anno, e in particolare da dopo l’estate, si era percepita una crescente tensione sotterranea tra Palazzo Chigi e Quirinale, soprattutto sulla politica estera e sulle riforme istituzionali. Il nervosismo di Meloni, che si è lasciata sfuggire un commento infastidito sul puntiglio del presidente della Repubblica verso l’esecutivo, si è risolto in un pranzo riservato e forse chiarificatore la scorsa settimana tra lei e il presidente.

D’altronde Meloni e Mattarella sono entrambi politici di lungo corso e hanno nella mediazione una delle tante frecce al proprio arco. È probabile che il Capo dello Stato abbia ribadito alla premier alcune linee rosse, derivanti dall’interpretazione della Costituzione e dal diritto europeo, che il governo non dovrebbe superare nella sua azione legislativa e amministrativa. È ora possibile che l’attrito istituzionale si stemperi per qualche settimana, ma qui il problema verticale di Meloni si interseca con il problema orizzontale, cioè quello della coalizione di centrodestra. Perché restare dentro i confini forniti dal Quirinale con una alleanza litigiosa è molto più difficile, come si è visto anche in questi mesi.

La dinamica sembra essere quella di un progressivo distanziamento dei tre partiti, con l’innesco che dipende da vari fattori: le difficoltà della Lega sul piano elettorale e lo spostamento a destra di Salvini in vista delle europee; la crescita di Forza Italia a seguito dell’assunzione di una posizione moderata ed europeista in tutte le competizioni elettorali di quest’anno; le schermaglie per il controllo del territorio intra-coalizione, si pensi soprattutto alle candidature dei governatori regionali.

Le tensioni

Così Meloni si ritrova a gestire una alleanza, che ha sì in Fratelli d’Italia il suo perno, ma che appare sempre più ampia ideologicamente, dal centrismo liberale di Tajani alla destra sovranista ed euroscettica di Salvini. Se questo dal punto di vista elettorale può avere il vantaggio di coprire un’area di consenso molto ampia, sul piano della gestione della coalizione la faccenda rischia di complicarsi. È ciò che sta emergendo nelle discussioni sulla legge di bilancio, dove in particolare la competizione per essere il secondo partito della coalizione, in termini di peso e influenza, tra Lega e Forza Italia sta deragliando in una panoplia di schermaglie sul programma.

Le prospettive

Questi tracciano due movimenti. Quello di Forza Italia verso il centro, anche su impulso della famiglia Berlusconi, che spinge il partito a bocciare la riduzione del canone Rai, ad avanzare proposte sullo ius scholae, a polemizzare sulla manca riduzione dell’IRPEF. Più in generale, gli azzurri sono ingolositi dalla evaporazione del centro di Renzi e Calenda, vedono in quel bacino di voti una opportunità e nel futuro una strategia che, qualora qualcosa andasse storto nel centrodestra, prevede di sganciarsi dagli attuali alleati.

Al contrario Salvini vive una doppia pressione. Da una parte la svolta a destra che lo ha salvato dal fallimento alle europee costruita intorno a Vannacci e a idee ancora più radicali rispetto al passato che si accompagnano al gruppo dei Patrioti e al trumpismo più populista; dall’altra parte la Lega del territorio che teme di essere mangiata da Fratelli d’Italia e da Forza Italia, si aggrappa ai governatori del nord, cerca di proteggere le strutture economiche-finanziarie in cui può esercitare il suo potere.

È una condizione che lo costringe a essere aggressivo verso gli alleati a ogni livello, dai comuni a Bruxelles. Insomma fino a ieri la maggioranza è stata forte perché sufficientemente diversificata ma anche coesa. Oggi alcuni dati mostrano già una maggiore insoddisfazione degli italiani verso il governo.

Minacciare le elezioni, come ha fatto trapelare Meloni, non sembra essere la strada giusta. Primo perché in Italia è sempre più facile buttare giù i governi di proposito, soprattutto quelli usciti dalle urne, in teoria che in pratica. Una volta aperta la crisi non è mai facile governarne gli esiti sia sul piano parlamentare che elettorale. In secondo luogo perché una crisi politica rischia di disunire il fronte del centrodestra che è l’unico vero patrimonio che lo distingue dal litigioso centrosinistra.

La destra nel 2022 ha vinto perché era una coalizione ampia e unita e fuori da quello schema le incognite sono molte. Ad esempio, nuove elezioni scriverebbero un punto interrogativo sul destino di Forza Italia dopo le elezioni se il centrodestra non dovesse riavere una piena maggioranza parlamentare. Terzo, gli italiani hanno rinnovato la fiducia alla maggioranza alle europee. Gli elettori di centrodestra ritroverebbero la motivazione per andare alle urne dopo la caduta di un governo per litigiosità?

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