Riforma della giustizia e premierato. Le riforme sono la prima linea del disaccordo, insieme alla separazione della carriere. Ma è necessario che i conflitti istituzionali non sfocino in uno scontro aperto
Il rapporto tra la presidenza del Consiglio e la presidenza della Repubblica in questa legislatura non è parso mai del tutto risolto e anzi le divergenze sembrano crescere negli ultimi mesi.
Seppur sul piano formale tanto Meloni quanto Mattarella si muovano in modo ineccepibile, è evidente che una linea di tensione tra la maggioranza e il Quirinale si è instaurata fin dal primo giorno.
Molti sottolineano come l’intervento del presidente della Repubblica sulle parole di Elon Musk costituisca una bacchettata al governo, ma in realtà in questo caso non c’è da esagerare la portata della dichiarazione: il capo dello Stato ha sempre difeso gli attacchi scomposti contro le istituzioni del nostro paese da chiunque venissero, Meloni si è subito accodata al presidente della Repubblica e Musk stesso ha corretto il tiro, probabilmente su invito della premier, con un comunicato. Le reali tensioni sembrano dispiegarsi su altri fronti, in primis sulle riforme costituzionali.
Riforma della giustizia
Anche se oramai è finita nelle retrovie, non dobbiamo dimenticare che uno degli obiettivi del governo è la riforma costituzionale della giustizia, di cui il presidente della Repubblica è formalmente capo del Consiglio superiore della magistratura. E Mattarella ha sempre tenuto a puntualizzare la necessità di un equilibrio fra poteri, il bisogno di recente ribadito di pesi e contrappesi senza scadere nella politicizzazione.
Anche l’intervento contro le esternazioni di Musk verso i magistrati è parso volto non solo a tutelare la sovranità statale ma anche la magistratura.
D’altronde a giugno il presidente della Repubblica, poche settimane dopo la presentazione del ddl Nordio, aveva sottolineato «recenti vicende di alcune democrazie occidentali dimostrano quanto possano essere gravi le conseguenze di una erosione dei pilastri dello stato di diritto qualora vengono sottratti spazi di indipendenza alla giurisdizione ovvero siano influenzate politicamente le nomine e le carriere dei magistrati».
L’epicentro degli attriti sotterranei con la maggioranza è costituito dalla riforma del premierato. Una legge costituzionale che nei fatti rafforza il potere del presidente del consiglio a scapito del capo dello Stato che perderebbe soprattutto la capacità di influire sulla scelta dei ministri e vedrebbe ridotto lo spazio di manovra nella gestione delle crisi di governo.
Sul tema Mattarella non è mai intervenuto in modo diretto, ma a luglio 2024 poco dopo l’approvazione della legge costituzionale in prima lettura egli avvertiva in un discorso centrato su democrazia e istituzioni che «la coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile di leale e irrinunziabile vitalità democratica». Servono «limiti alle decisioni della maggioranza che non possano violare i diritti delle minoranze».
La riforma però al momento è in stallo perché la maggioranza non sa che strada prendere sulla legge elettorale ed è implausibile che il premierato veda la luce prima della fine della legislatura, sempre ammesso che riesca a superare il referendum confermativo.
Dubbi di Mattarella
Anche rispetto all’autonomia differenziata Mattarella aveva lasciato trapelare, sempre in modo implicito, dei dubbi sottolineando nell’aprile 2024, quando la legge era in dirittura d’arrivo per l’approvazione, che una «separazione delle strade tra territori del nord e territori del meridione recherebbe gravi danni agli uni e agli altri». Un altro terreno su cui le strade del governo e della presidenza della Repubblica sembrano divaricarsi la politica estera.
Meloni ha sempre mantenuto un atteggiamento filo-atlantico, oggi rafforzato, almeno in superficie, dalla vittoria di Donald Trump.
Ma soprattutto la premier ha stralciato il memorandum sulla via della seta con la Cina e il suo governo è intervenuto molteplici volte per bloccare investimenti cinesi con il golden power.
Mattarella, al contrario, fin dall’inizio del suo mandato ha sempre tenuto ad avere un buon rapporto con entrambe le potenze. I recenti incontri in Cina del Presidente per preservare la cooperazione diplomatica e commerciale tra i due paesi possono essere interpretati come un’azione di contro bilanciamento ad un governo che sembra aderire alla teoria della nuova guerra fredda tra Occidente e Oriente e che forse verrà attratto sempre più dal magnete di Trump.
Insomma, sembrano essere oramai molti i punti di frizione, mai naufragati in conflitto aperto, tra capo dello Stato e governo. Se è fisiologica una dialettica tra diverse istituzioni, soprattutto quando il presidente della Repubblica è stato eletto da una maggioranza parzialmente differente rispetto a quella della coalizione uscita vincente dalle urne nel 2022, è bene che le tensioni non si tramutino in scontro aperto.
Cosa che potrebbe accadere in futuro se il governo si innervosisse a causa di una flessione dei consensi e della difficoltà nel far avanzare e completare le riforme istituzionali oppure attuare le decisioni politiche più caratterizzanti, come la creazione di centri di accoglienza in Albania. Ciò sarebbe un problema per il paese dato che quando i due palazzi si coordinano, come in sede europea dove Mattarella ha sempre difeso e sostenuto il governo Meloni, arrivano risultati migliori del previsto.
Riusciranno i leader della maggioranza a tenere a freno le pulsioni di rovesciare qualche colpa sul Quirinale se le partite politiche interne ed esterne dovessero complicarsi nella seconda metà della legislatura o invece per ragioni elettorali e di frustrazione apriranno lo scontro istituzionale? Più la legislatura si avvicina alla fine e più aumentano i rischi che ciò accada.
© Riproduzione riservata