Non c’è solo Acca Larenzia. I repertori simbolici, valoriali e identitari ripresi e riproposti dalla comunicazione dei Fratelli d’Italia e della sua leader sono ancora nostalgicamente e irriducibilmente fascisti. Lo rivela uno studio sull’iconografia dell’estrema destra italiana
«Fratelli d’Italia è totalmente estranea alle manifestazioni neofasciste di commemorazione dei tre militanti dell’Msi uccisi nel 1978 nella sezione di acca larenzia a Roma», ha dichiarato il presidente del Senato Ignazio La Russa, cercando di attenuare le polemiche suscitate dalle immagini diffuse dagli organi d’informazione e dalle richieste di una condanna da parte delle opposizioni.
Totalmente estranea forse alla triste e lugubre adunata nera nel quartiere del Tuscolano ma, come più volte dimostrato nel corso del primo anno al governo, incapace, anzi totalmente incapace, di recidere il filo nero che da Fratelli d’Italia risale in maniera netta ed evidente, tramite Alleanza Nazionale, al Movimento Sociale, sino al ventennio.
Le radici
Il primo anno al governo della nuova classe politica ha offerto una molteplicità di occasioni istituzionali per fare finalmente chiarezza non tanto sulle origini e sulla matrice identitaria di FdI, ben note e tutt’ora illuminate dalla fiammella tricolore, ma sul suo processo di elaborazione politica.
Un tema che si è imposto con ineluttabilità storica alla neo premier sin dal momento del suo insediamento a Palazzo Chigi avvenuto, per terribile coincidenza, o segno?, nell’ottobre del 22. Esattamente cento anni dopo la marcia su Roma e l’ascesa al potere di Mussolini.
La questione si è riproposta ad ogni ricorrenza storica – l’eccidio delle Fosse ardeatine e il 25 aprile – e in occasione di vicende d’attualità vissute dai protagonisti con la testa rivolta al passato – funerali, dichiarazioni sui social, l’assalto alla sede della Cgil.
In nessuna di queste occasioni, né il presidente del Consiglio, né Fratelli d’Italia sono stati in grado di fare chiarezza e di compiere quel passo necessario per entrare a pieno titolo nell’Italia democratica e antifascista, sancita dalla Costituzione alla quale il governo ha giurato fedeltà nelle mani del suo Presidente. Per traghettare nel ventunesimo secolo.
Un sottile gioco di equilibrio sul filo dell’ambiguità e della reticenza che anche quando obbliga a confrontarsi con la storia, come in occasione della lunga lettera inviata da Giorgia Meloni al Corriere della Sera per il suo primo 25 aprile da presidente del Consiglio, a fianco del riconoscimento dei valori democratici «conculcati dal fascismo», permette di non pronunciare mai la parola «antifascismo» e di limitare la «resistenza» alla brigata bianca Osoppo o quella della guerra Russo-Ucraina.
Arroccati, ma anche vittime, di una cultura politica e di un universo valoriale che confondono l’evoluzione con l’abiura, il cambiamento con il tradimento, l’ostinazione con l’eroismo, attingono e si nutrono di simboli, immagini, mitologie di chiara e indubbia provenienza.
Iconografia della destra
Alla ricostruzione e all’analisi della dimensione iconografica e identitaria dei partiti e delle organizzazioni dell’estrema destra italiana, con tutti gli addentellati ideologici e politici che ne conseguono, si muove il libro di recente pubblicazione Iconografia della destra, edito da Viella, documentato da oltre 200 immagini a colori, dettaglio non consueto a merito dell’editore.
Armato di un punto di vista e una strumentazione analitica sviluppate nel campo dell’arte rinascimentale, poi applicate allo studio dell’iconografia e dei materiali visivi contemporanei, Luciano Cheles analizza il vocabolario figurativo e gli immaginari identitari del neofascismo italiano in oltre settant’anni, individuando palesi continuità e riproposizioni, lontane radici ed origini, occulti mascheramenti e trasfigurazioni: guardando alle immagini quali documenti e risalendo alla loro struttura della visione, secondo la migliore tradizione degli studi di storia culturale e dei nuovi filoni dei visual studies.
Non solo quindi l’iter della fiamma tricolore del Msi e delle sue ben note origini e significati, ma anche l’ossessiva ricorrenza di braccia e mani tese – a proposito della rievocazione di Acca Larenzia – di balconi e folle oceaniche, di statue e elementi architettonici del ventennio, di aquile, feluche, elmetti, croci celtiche, fasci stilizzati, la Z barrata risalente alla quarta divisione della Waffen SS Panzergrenadier, di profili e posture mussoliane in cui, con continuità, si fanno ritrarre leader e candidati del Msi, di An e infine di FdI, ed anche riprese e adattamenti di manifesti fascisti e nazisti.
Passando alla dimensione verbale, consistente è la ricorrenza evidenziata da Cheles di parole connotate e identitarie, quali “credere”, magari scritto con i font del ventennio; di slogan inequivocabili: “marciare e non marcire”, “siamo l’eterna gioventù”; di frasi quali “il domani appartiene a noi” della quale nel libro viene ripercorsa la storia sino all’originale contaminazione nazista, o “Vivere l’idea essere l’idea”, proveniente dal Giuramento ideale dei Legionari SS, riprodotto su una maglietta nera indossata dal presidente di Gioventù Nazionale.
Una cultura politica
Una casistica ampia e ricorrente, talvolta palese al limite della spudoratezza, altre oggettivamente più sottile e suggestiva, di fronte alla cui mole e continuità è ben difficile sostenere si tratti di coincidenze o casualità, che comunque implicherebbero un totale analfabetismo iconografico e simbolico degli ignari autori.
È lecito domandarsi come verrebbe accolto un manifesto del Pd o di una qualsiasi formazione della sinistra italiana contenente una stella a cinque punte in un cerchio, inneggiante alla “dittatura del proletariato”, o con il profilo di Stalin nascosto in filigrana?
Sostenere, come fanno in molti, che FdI non può affrancarsi da questa ingombrante eredità politica pena – Fini insegna – la perdita del consenso degli irriducibili ancora presenti nell’elettorato, bacino elettorale di qualche punto percentuale, è una argomentazione che non convince.
Non si tratta infatti solo di una reticenza tattica o di una postura pubblica, ma di una cultura politica e di una dimensione valoriale ancora vivi e alimentati. La figura pubblica di Giorgia Meloni costruita nell’anno trascorso a Palazzo Chigi, attinge a questa mitologia e si nutre di questo immaginario.
La favola dell’underdog, il culto della fedeltà e dell’irriducibilità, il mito dei tanti nemici (occulti) tanto onore, del sola contro tutti, del mi spezzo ma non mi piego, la postura retorica petto infuori e mani sui fianchi, più volte rivendicati nei libri, incontri pubblici, social, sono stati temprati negli anni Settanta alla fiamma dell’isolamento e dell’esclusione dal consesso politico repubblicano nelle sezioni del Movimento sociale, quale quella di Colle Oppio nella quale Giorgia e buona parte dell’attuale classe dirigente del partito si sono formati.
Radici che non gelano
Anche il manifesto celebrativo del primo anno di presidenza Meloni, non incluso nel volume per ragioni di tempo, ha molte similitudini e richiami formali con un famoso manifesto del ventennio.
In questa costante attenzione alle profonde radici simboliche, valoriali e identitarie che non solo “non gelano”, espressione talkieniana molto cara alla Meloni, ma che vengono continuamente innaffiate e concimate, Fratelli d’Italia e la sua leader si rivelano ancora nostalgicamente e irriducibilmente fascisti.
Il libro
Luciano Cheles, Iconografia della destra. La propaganda figurativa da Almirante a Meloni, Viella
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