Le riforme sul finanziamento ai partiti hanno portato a una drastica riduzione dei fondi, ad accentramento decisionale; riduzione del numero e della qualità delle iniziative politiche; una forte dipendenza del partito dal gruppo parlamentare di riferimento; la necessità di cercare, soprattutto durante le campagne elettorali, il sostegno di fondazioni, associazioni e comitati. Una legge del 2012 mai applicata prevedeva invece di prendere un’altra direzione.
Nel 2013 l’Italia, unica tra le democrazie europee, ha eliminato il finanziamento pubblico diretto ai partiti, ossia quel finanziamento che, dal 1974, prima a titolo di contributo per le attività ordinarie, poi, dopo il referendum del 1993, di “rimborso” delle spese elettorali, ne aveva sostenuto pressoché integralmente le attività politiche.
Da allora i partiti, previa iscrizione in un apposito registro, sono destinatari solo delle somme attribuite dai contribuenti attraverso il due per mille e delle donazioni, entro certi limiti, di persone fisiche e giuridiche, che possono beneficiare della detrazione del 26 per cento.
Non che a quel tempo siano mancate, in parlamento, voci “contro” (Socialisti, Fratelli d’Italia, Lega e Sel), ma prevalse la volontà di dare un segnale a un’opinione pubblica sempre più disaffezionata. L’entità eccessiva che il contributo pubblico aveva raggiunto visto che la legge 57/2001 aveva autorizzato, dal 2001, una spesa pari a 257 miliardi di lire all’anno, lo strascico di Mani Pulite, insieme a una crisi economica senza precedenti, spingevano del resto in quella direzione.
Oggi, terminato il periodo transitorio durante il quale i partiti hanno continuato in parte a beneficiare di finanziamenti pubblici diretti, è possibile fare un bilancio di quella riforma.
Muoviamo da alcuni dati oggettivi: anzitutto, vi è stata una decisa contrazione delle risorse pubbliche a disposizione dei partiti: dai 91 milioni di euro nel 2013, prima della riforma, ai soli 19 nel 2021, attribuiti con il due per mille. In secondo luogo, poche sono le persone fisiche o giuridiche che hanno elargito somme (la quota inserita nei rendiconti dei partiti è costituita in larghissima parte dal denaro che versano gli eletti); al contrario, le Camere continuano a destinare ai gruppi parlamentari una somma di circa 53 milioni di euro all’anno.
Gli effetti della riforma
Meno risorse, dunque, a disposizione dei partiti, con importanti conseguenze: accentramento decisionale; riduzione del numero e della qualità delle iniziative politiche; una forte dipendenza del partito dal gruppo parlamentare di riferimento; la necessità di cercare, soprattutto durante le campagne elettorali, il sostegno di fondazioni, associazioni e comitati, i quali, invece, per molteplici ragioni che qui non è possibile illustrare, reperiscono più facilmente finanziamenti, oppure di confidare sulle risorse personali dei candidati.
Nel contempo, le riforme del biennio 2012/2013, pur con alcune modifiche successive, non sono riuscite ad assicurare che i partiti si dotassero di una organizzazione capace di assumere decisioni in modo trasparente e inclusivo e, soprattutto, che vi sia una reale conoscenza di chi finanzia la politica.
1In questo contesto, non è inutile chiedersi se sia opportuno ripensare la scelta del 2013, che, giustificata dalla contingenza, non si è rivelata adatta a un ordinamento in cui i cittadini, per tradizione e cultura politica, non sono, e forse non saranno mai, propensi a finanziare i partiti – nel 2021 solo il 3,28 per cento dei contribuenti ha destinato il 2 per mille. La politica, è inutile nasconderlo, ha bisogno di denaro e, se questo non arriva dagli iscritti, dagli eletti e dai simpatizzanti, o i partiti non riescono a svolgere le proprie attività o devono fare i conti con gli interessi dei grandi finanziatori.
Le soluzioni che potrebbero essere discusse per rendere i partiti autonomi protagonisti nella determinazione della politica nazionale, come recita l’articolo 49 della Costituzione, sono molteplici. Poiché, però, una certa dose di realismo sconsiglia di proporre un ritorno al passato, un obiettivo condiviso potrebbe essere quello di trovare un più equilibrato bilanciamento tra finanziamento pubblico e privato.Il presupposto, ovviamente, è che sia aumentato il fondo, attualmente di circa 40 milioni di euro, che lo Stato italiano mette a bilancio per coprire il finanziamento dei partiti e che copre poi le mancate entrate legate a 2 per mille e detrazioni fiscali.
Tale fondo potrebbe essere distinto in più voci: una parte, come già oggi, per soddisfare il mancato gettito dovuto alle detrazioni fiscali dei finanziatori privati e al 2 per mille, una parte, invece, per l’attribuzione diretta di finanziamenti ai partiti, recuperando le soluzioni contenute nella legge 96 del 2012, che fu abrogata prima di trovare applicazione.
La legge inapplicata del 2012
La legge del 2012 prevedeva che i contributi pubblici fossero erogati per una quota a titolo di co-finanziamento rispetto a ciò che i partiti avevano ricevuto dai privati, così da premiare quelli che hanno un radicamento nella società, e per un’altra quota a titolo di rimborso forfettario delle spese elettorali sostenute dai partiti che partecipano alle elezioni e ottengono un certo consenso.
Il sistema del co-finanziamento – in cui non dovrebbero essere conteggiate le somme versate dagli eletti – dovrebbe spingere le risorse verso i partiti, anziché verso fondazioni e associazioni. Il rimborso delle spese elettorali potrebbe essere subordinato al rispetto di regole volte a garantire la partecipazione dei cittadini alla vita politica, come, ad esempio, l’obbligo per il partito di attribuire propri fondi ai candidati nei collegi uninominali per sostenere le spese elettorali, affinché tutti possano concorrere in condizioni di eguaglianza. Nel complesso, ciò avrebbe l’effetto di consentire ai partiti, previa iscrizione nel registro, di ottenere più risorse pubbliche, senza far correre ai cittadini il rischio di devolvere finanziamenti a partiti “finti”, estinti o con scarso radicamento elettorale.
Una riforma che cambi in profondità il sistema dovrebbe però incidere anche su altri aspetti che qui si possono solo elencare. Primo: revisione dei criteri per l’iscrizione nel registro dei partiti, poiché l’attribuzione di fondi pubblici richiede una definizione più stringente di partito (oggi sono addirittura 29 i partiti iscritti) Secondo: coordinamento della disciplina sul finanziamento dei partiti politici e delle fondazioni con le regole sul finanziamento delle campagne elettorali che a loro volta andrebbero adeguate alle spese per la propaganda politica online. Terzo: autonomia e rafforzamento della Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici, affinché, dotata di una struttura adeguata, diventi unico organo competente a verificare i requisiti per l’iscrizione nel registro, i rendiconti, i limiti delle spese elettorali, invece dei collegi presso le sezioni regionali della Corte dei conti. Quinto: la corretta pubblicazione dei dati, auspicando di avere una sola piattaforma da cui ricavare tutte le informazioni per comprendere chi finanzia chi e come i partiti usano le risorse a loro disposizione. Sesto e ultimo: revisione delle sanzioni penali in tema di finanziamento illecito ai partiti.
Finalmente un testo unico del finanziamento della politica, innovativo e non solo compilativo, le cui regole consentano di restituire ai partiti un ruolo centrale nell’arena pubblica, di assicurare trasparenza, di offrire a chi fa politica un quadro normativo chiaro e coerente su cui fare affidamento.
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