Prima o poi doveva succedere. Il chiarimento tra le forze di opposizione non era più rimandabile. Che sia stato Giuseppe Conte a farlo, in maniera sgraziata e improvvida, è un dettaglio. Da troppo tempo si erano accumulati distinguo, incomprensioni e frizioni per non arrivare a uno showdown

La miccia per la deflagrazione odierna l’ha accesa, per una volta involontariamente, Matteo Renzi. Il leader di Italia viva, forse stanco di girare per il mondo a fare conferenze, si è reimmesso nella politica nazionale. Lo testimoniano il diluvio di interviste che ha sollecitato, o concesso, questa estate. Del resto doveva in qualche modo uscire dall’angolo in cui il fallimento della sua lista alle europee lo aveva cacciato.

Con la massima disinvoltura, ma suscitando qualche malumore interno – si veda la fuoriuscita di un ex fedelissimo come Luigi Marattin – è tornato a proporsi come una costola dell’alleanza di centrosinistra. Una piroetta tipica del personaggio, già fautore del governo Conte II quando aveva portato il Pd al governo con i pentastellati salvo uscire dal partito il giorno dopo e infine far cadere la “sua “ creature all’inizio del 2021.

Il ritorno del figliol prodigo?

In tutti questi anni il suo obiettivo era quello di dimostrare che il Pd, senza di lui, era destinato alla deriva. E ancor peggio con quella estremista di Elly Schlein. Acqua passata? Il figliol prodigo ritorna all’ovile?

Saggiamente la segretaria dei democratici ripete che per sconfiggere la destra c’è bisogno di un fronte ampio, di essere inclusivi. L’inclusione, però, richiede la condivisione di un progetto che non può essere declinato solo in negativo. È vero che nel campo di sinistra pesa come un macigno l’errore di Enrico Letta quando, alle ultime elezioni, ha rifiutato di allearsi con i Cinque stelle e ha consegnato il paese alla destra.

Ma allo stesso tempo non ha senso una ammucchiata di tutti senza un profilo chiaro. Va sempre tenuta a mente l’infausta esperienza del governo di Romano Prodi nel 2006-2008 che doveva contemperare posizioni che andavano Turigliatto a Mastella, dai nostalgici del comunismo duro e puro ai post-democristiani più scafati.

L’approccio pragmatico patrocinato da Schlein di procedere per accordi specifici su temi precisi ha avuto il vantaggio di rimandare a tempi migliori le grandi costruzioni programmatiche e di ricercare, piuttosto, punti di contatto su questioni concrete. In tal modo, passo a passo, il perimetro del consenso tra alleati si sarebbe rinforzato, e così anche la fiducia reciproca.

Mancava però il salto in avanti della condivisione di un progetto di trasformazione e rinnovamento del paese.

La futura alleanza

Un progetto indirizzato a maggiore giustizia sociale e redistribuzione della ricchezza, al riequilibrio territoriale, alla difesa ed estensione dei diritti civili e alla condivisione di quadro di politica internazionale fondata sul multilateralismo e la costruzione di un ambiente dove tutti abbiano la garanzia di vivere in pace, dove non vinca la forza bruta delle armi, chiunque le impugni, bensì il diritto alla autodeterminazione e alla sicurezza dei popoli.

Su questa micro-agenda politico-ideale rimangono posizioni diverse, e lo scarto di Giuseppe Conte lo ha certificato. Il vero problema non riguarda tanto la presenza di Renzi e delle sue magre truppe, con le quali o senza le quali non cambiano di molto le sorti della coalizione, quanto il progetto complessivo di una futura alleanza di governo.

I punti di frizione non mancano e l’avvicinamento di Renzi li ha riproposti di attualità. Gli elementi fondanti di politica economico-sociale, a incominciare dal Jobs act e dai rapporti con il mondo sindacale e del lavoro, non sono condivisi da Italia viva, e già questo rende spinosa la coesistenza con i democratici, per non parlare dei pentastellati e dei rosso-verdi di Avs.

E la lotta feroce, con tanto di proterva irrisione, condotta dai renziani dentro e fuori il Pd contro il reddito di cittadinanza, il più importante intervento di politica sociale contro la povertà degli ultimi sessant’anni, ha lasciato ferite che ancora bruciano. Ma, ripetiamo, non è solo e tanto Renzi il problema.

Anche l’ubiquità politico-valoriale di Conte, in equilibrio tra Harris e Trump (nostalgia del “Giuseppi”) , freddo sul diritto di cittadinanza ai nati in Italia, e scettico sulle alleanze internazionali, scava solchi tra M5s e Pd. Finora la pazienza olimpica di Schlein aveva evitato rotture, e consentito l’attivazione di un minimo comun denominatore di iniziative specifiche. Il tempo del galleggiamento è scaduto. Senza un chiarimento che prenda in considerazione le diverse valutazioni di tutti coloro che vogliono opporsi a questa destra autoritaria e liberticida non si forma una coalizione alternativa.

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