Nell’opuscolo di FdI per l’anniversario della vittoria elettorale l’economia ha un grande spazio. Crescita, lavoro e industria, i dati mostrano i meriti del predecessore. E Meloni era all’opposizione
Una crescita economica spettacolare, l’industria che diventa un modello, l’occupazione da record. In dodici mesi l’Italia si è trasformata nel Bengodi. Almeno questa l’idea che si ricava sfogliando l’opuscolo di 32 pagine confezionato da Fratelli d’Italia in occasione delle celebrazioni per un anno dalla vittoria elettorale del 25 settembre 2022. Un punto di partenza c’è: alcuni indicatori virano realmente verso l’alto. Ma sull’economia il governo Meloni sta facendo un’operazione molto semplice: appropriarsi dei risultati altrui, di chi c’era prima a palazzo Chigi.
Poco male. C’è da diffondere il piccolo-grande libro dei sogni, un capillare strumento della propaganda da divulgare nell’etere e nelle piazze. Sarà il trofeo da ostentare all’appuntamento clou di domenica prossima, quando Giorgia Meloni parlerà all’auditorium della Conciliazione, a Roma.
La brochure si presenta con la leader in primo piano e il titolo “L’Italia vincente”. L’economia è un capitolo a cui il pamphlet autocelebrativo dedica particolare attenzione. Gli elettori, in fondo, soprattutto quando si tratta di votare, guardano cosa c’è nelle loro tasche.
Così viene scritto che «nel primo trimestre del 2023, l’Italia è cresciuta più di Germania e Francia e più della media dell’Eurozona». Tutto vero. I numeri vanno a conforto della narrazione meloniana con il +0,6 per cento del Pil, una performance migliore rispetto agli altri paesi europei.
Nessun effetto Meloni
Qual è il problema allora? C’è un’omissione non proprio secondaria. I dati sul Prodotto interno lordo in crescita fanno riferimento a un periodo – gennaio-febbraio-marzo 2023 – su cui il governo Meloni, insediato a fine ottobre, non ha potuto di certo incidere. Peraltro la legge di Bilancio approvata a dicembre 2022, che per definizione dispiega gli effetti lungo l’arco dell’anno, è stata in assoluta continuità con il quadro definito dal precedente esecutivo.
I dati, certo, sono positivi. Ma il merito, la maggior parte quantomeno, andrebbe ascritto a chi c’era prima a palazzo Chigi. Governo che, peraltro, ha visto Fratelli d’Italia e Meloni orgogliosamente all’opposizione. Lo stesso Draghi viene indicato oggi come il principale “colpevole” di tutto ciò che non va all’interno del Pnrr.
La galleria delle critiche è lunga a cominciare da quelle mosse dal ministro Raffaele Fitto. Meno ricco, per non dire assente, è invece il quadro dei riconoscimenti rispetto a quanto è stato fatto. Denotando una peculiarità aggiuntiva della destra al governo: non solo l’arte dello scaricabile che addossa le responsabilità agli altri, ma pure la mancata onestà intellettuale di riconoscere il lavoro svolto dai predecessori.
I numeri aggiornati spiegano come l’impatto di Meloni sull’economia non sia stato proprio dirompente. Nel secondo trimestre del 2023, a quasi sei mesi dall’arrivo della premier a palazzo Chigi, le cifre sono cambiate: il Pil italiano è andato peggio (-0,3 per cento secondo Eurostat) rispetto a quello francese (+0,5 per cento) e tedesco (a crescita zero).
Di miracoli italiani non se ne vedono all’orizzonte. Le stime per il futuro, infatti, sono in bilico: per l’Ocse e per l’Unione europea Parigi e Berlino faranno meglio di Roma nel 2024, mentre il Fondo monetario internazionale prevede una crescita migliore dell’Italia rispetto agli altri big europei. Passata l’onda lunga di Draghi e cambiata la congiuntura internazionale, le cose non stanno andando benissimo.
Il boom della propaganda
Ma lo storytelling meloniano va avanti senza tentennamenti. La brochure celebrativa sottolinea così che «i dati del tasso di disoccupazione sono i migliori degli ultimi 14 anni». Come per il Pil si tratta di un dato raccontato a metà. L’Istat, prima di tutto, ha certificato una flessione degli occupati nel mese di luglio (-0,3 per cento, pari a -73mila unità) e un aumento del tasso disoccupazione totale, che è tornato al 7,6 per cento (+0,2). Un campanello di allarme in un trend positivo che, anche in questo caso, è partito con Draghi.
Nel gennaio 2022 il precedente governo doveva fare i conti con una disoccupazione all’8,8 per cento e nel novembre dello scorso anno ha consegnato a Meloni un tasso al 7,8 per cento. La riduzione di un punto netto. Con il nuovo anno, la disoccupazione è stata contenuta nello 0,2 per cento. Non si palesa nemmeno il «boom di assunzioni» che troneggia nel titolo di un capitolo dell’opuscolo celebrativo.
Le cifre dell’Inps parlano di 403mila nuovi contratti a tempo indeterminato nel primo trimestre 2023 e di 325mila per i tre mesi successivi. In confronto ai primi sei mesi del 2022, ci sono quasi 50mila contratti stabili in meno. Dall’altra parte, però, crescono i rapporti di lavoro precari, considerando quelli a tempo determinato, stagionali o intermittenti.
L’andazzo è lo stesso se l’argomento diventa il commercio estero che «va a gonfie vele – si legge nel pamphlet – su base annua aumentano le esportazioni con il saldo commerciale che, nei primi sei mesi del 2023, è positivo per 18,3 miliardi (era -15,0 miliardi nello stesso periodo del 2022)». Draghi ha fatto, Meloni ha incassato in termini di export.
Anche laddove i numeri smentiscono l’ottimismo, però, il documento parla di un nuovo slancio. È il caso dell’industria italiana. La produzione, come certificato dall’Istat, è in flessione: a luglio c’è stato un calo dello 0,7 per cento in confronto al mese precedente, confermando una tendenza non confortante. Ma ovviamente Meloni e i suoi preferiscono fare finta di niente.
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