- Con il Movimento 5 stelle è sempre successo: era stato sottovalutato nel 2013, nel 2018 e, anche se a dimensioni ridotte, il copione sembra ripetersi anche a queste elezioni. I consensi crescono nelle ultime settimane, soprattutto al sud.
- Dal 2018 il M5s al sud è riuscito ad attrarre il voto di protesta in particolare tra chi vive una dimensione di profondo disagio socio economico, ha sostituito la coerenza ideologica cimplessiva con la coerenza su singole misure, tra le quali anche alcune di stampo laburista.
- FdI compete al nord per sottrarre voti a Salvini. E il Movimento nonostante le mutazioni genetiche ora si ritrova con un mercato elettorale al sud molto ampio, sul quale nessun partito ha scommesso.
Con il Movimento 5 stelle è sempre successo: era stato sottovalutato nel 2013, quando era difficile prevedere l’ascesa dal nulla a primo partito italiano. Poi ancora nel 2018, quando aveva conquistato un numero di seggi maggiori di quelli stimati, e il copione rischia di ripetersi, in proporzioni ridotte, in queste elezioni.
Anche se il partito non può mirare ai voti dell’ultima tornata elettorale, in poche settimane i sondaggi hanno registrato un aumento dei consensi, soprattutto nel Mezzogiorno. E questo nonostante il Movimento abbia governato in una sola legislatura con tre esecutivi uno opposto all’altro, con una disinvoltura che farebbe arrossire la definizione di trasformismo; nonostante abbia perso leader e candidati di richiamo. Ultimo Luigi Di Maio che, dopo averlo “inventato” dal nulla come premier quando era leader del Movimento, ora si trova a combattere per rubare qualche voto alla sua creatura, Giuseppe Conte. Eppure, a dispetto delle mutazioni genetiche, il M5s resiste e conferma il proprio radicamento al sud per molteplici ragioni, inclusa l’assenza di reali concorrenti nel bacino di voti delle aree economicamente più in difficoltà del paese.
Qualcosa è cambiato
In questi quattro anni e mezzo di legislatura, il M5s ha sostituito l’idea di una coerenza complessiva ideologica di partito alla coerenza su alcune singole misure. «C’è la tendenza a ridurre il successo al sud a un voto di scambio sul reddito di cittadinanza, ma si potrebbero definire altre misure voto di scambio e il reddito di cittadinanza è molto più di questo. Soprattutto è stato promesso, l’hanno detto e l’hanno fatto e possono rivendicarlo», dice Dario Tuorto, professore di sociologia all’università di Bologna, tra gli autori, nel 2019, di un numero di Meridiana, la rivista dell’Istituto meridionale di storia e scienze sociali, dedicato proprio all’analisi dei risultati del M5s nel Mezzogiorno.
La dimensione territoriale del Movimento, dice Tuorto, si è affermata nel 2018: «Nel 2013 non era così chiara e il M5s aveva rappresentato anche la rottura di una certa subcultura al nord. Poi si è caricato di alcuni temi di impronta laburista – anche se non tutti i suoi temi lo sono, non lo sono i bonus edilizi – e al sud c’è stata una rilevante sovrapposizione di due dimensioni: la condizione di disagio socioeconomico ha rafforzato il voto di protesta». Ora probabilmente i candidati M5s sono più consapevoli di questa tendenza.
Al sud però – la Democrazia cristiana insegna – il voto si è sempre indirizzato verso i partiti che avevano possibilità di governare, unendo il voto di protesta anche a una certa concretezza. Quattro anni fa non c’era la previsione di un governo Cinque stelle, ma il Movimento aveva più opportunità di oggi. E però, allo stesso tempo, oggi non c’è un partito che ha puntato davvero sul sud: a Conte e compagni è stato lasciato campo libero o quasi.
La mancanza di competitor
«Considerando le difficoltà degli altri partiti, dal Pd che sconta problemi di lunga data a Forza Italia che mantiene alcune enclave, l’incognita per il M5s nel Mezzogiorno è quanto FdI, dato come vincente a Roma, diventerà un polo di attrazione di voti in nome della sua vittoria annunciata», spiega Tuorto, notando però come Giorgia Meloni non abbia puntato sul meridione, né in campagna elettorale, né nei programmi.
Al contrario FdI ha scommesso moltissimo sul divenire una forza credibile al nord. Nel giorno in cui Mario Draghi parlava di agenda sociale con le tre maggiori organizzazioni sindacali nazionali, Meloni si schierava dalla parte del presidente di Confindustria ed ex presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi. Per coincidenza poi, la responsabile lavoro del partito, di certo il tema più sentito nel meridione, è l’assessora veneta Elena Donazzan. Meloni è in competizione frontale con il suo alleato Matteo Salvini a “casa sua”. E Salvini, dopo aver tentato senza particolare successo la via della Lega nazionale, ora è chiamato dai suoi amministratori a tornare a serrare i ranghi nel settentrione.
Il Partito democratico al sud ha sostanzialmente due fortissimi “feudatari” e raccoglitori di voti, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, a cui infatti è stata concessa moltissima libertà di manovra nel comporre le liste e distribuire posizioni, una delega a mantenere il feudo. Emiliano con i Cinque stelle è pronto a collaborare al punto da invocare, primo nella campagna elettorale, la desistenza per l’elettorato di centrosinistra, De Luca invece ne è un avversario storico. Il terzo polo è un partito che al sud, Mara Carfagna a parte, parla poco. Allo stato attuale, conclude Tuorto, «il mercato elettorale del Mezzogiorno è molto ampio. FdI ha un minimo di radicamento per la sua tradizione post fascista, bisogna capire che risposta ci sarà alla voglia di novità, ma oltre a questa incognita per l’elettore del sud la scelta rischia di essere tra M5s e astensionismo».
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