Perché il doppio gioco? Di certo Schiavone aveva compiuto questa scelta anche per la situazione familiare temendo conseguenze per il figlio Emanuele Libero che non aveva accettato il tramonto di quella storia criminale
Doveva rivelare segreti, fare luce su omicidi, indicare politici e imprenditori coperti, ma in tre mesi Francesco Schiavone, detto Sandokan, non è riuscito a confermare neanche i fatti accertati dagli stessi investigatori.
A distanza di novanta giorni dall’inizio della collaborazione con la giustizia, il capo dei capi del clan dei Casalesi torna da dove era venuto: al carcere duro, fine pena mai. La procura di Napoli, come aveva anticipato Domani dieci giorni fa, ha deciso di interrompere la collaborazione con la giustizia.
Il dominio
Schiavone è stato tra i fondatori della mafia casertana, in grado di traghettare il gruppo criminale dalla stagione dei padri, Antonio Bardellino e Mario Iovine, entrambi uccisi il primo nel 1988, il secondo tre anni più tardi, a una nuova era di dominio assoluto. Se negli anni ottanta le guerre avevano consumato energie e risorse, nel decennio successivo i Casalesi entrano e si consolidano nei settori dei rifiuti, fondi europei, sanità, appalti pubblici fino a diventare un blocco criminale violento, penetrante e inafferrabile.
Schiavone viene catturato nel 1998, ribattezzato Sandokan per la somiglianza all’attore Kabir Bedi, lascia il clan florido e in mano agli altri capi del crimine casalese Antonio Iovine e Michele Zagaria. Ma anche la detenzione al 41 bis gli consente di continuare a esercitare il suo ruolo, assiste agli inizi della collaborazione di altri membri apicali del clan, poi più di recente al pentimento del figlio Nicola, alle dichiarazioni della moglie, Giuseppina Nappa.
Proprio Nappa, sempre prodiga di parole roboanti e a effetto, in una frase è riuscita a indicare l’intera cifra criminale del clan. Di un imprenditore ancora a processo, aveva detto: «Ha usato il lievito madre di Sandokan», sintesi perfetta del potere di Francesco Schiavone di favorire ascese o declini.
Il bluff
Da qui l’attesa enorme per la sua collaborazione che doveva svelare segreti, fare luce su alcuni omicidi rimasti irrisolti e indicare eventuali nomi di politici o imprenditori ‘coperti’. I segreti che poteva riferire erano comunque datati e per buona parte prescritti se non per i fatti di sangue. A occuparsi della collaborazione sono stati i pubblici ministeri della distrettuale antimafia di Napoli, guidati dal procuratore Gratteri che, in passato, aveva scoperto il doppio gioco di un boss della ‘ndrangheta, Nicolino Grande Aracri.
Anche Schiavone, nei mesi di protezione provvisoria in vista di quella definitiva, ha fatto scoprire lentamente il suo bluff. Di fronte a fatti già verificati, raccontati da altri pentiti, il boss ha fatto scena muta. Quando doveva confermare divagava, anche quando gli inquirenti sapevano benissimo che lui fosse a conoscenza degli episodi esaminati.
Ma perché il doppio gioco? Di certo Schiavone aveva compiuto questa scelta anche per la situazione familiare temendo conseguenze per il figlio Emanuele Libero che non aveva accettato il tramonto di quella storia criminale. Il rampollo, infatti, appena uscito dal carcere è stato nuovamente arrestato visto che si voleva vendicare di alcune intimidazioni armate che aveva subito.
Il bacio non dato
La collaborazione di Francesco Schiavone aveva generato una spaccatura nella famiglia. È il giorno 20 marzo, Emanuele Libero arriva in carcere per un colloquio con il padre, Sandokan. Francesco Schiavone gli confida che ha avviato il percorso di collaborazione e lo invita ad andare via da Casal di Principe, ma riceve un secco rifiuto dal figlio che gli risponde a brutto muso: «Devi far ridere i San Ciprianesi, dobbiam far ridere tutti (...) che tutto quanto ha le corna e sono cornuti». Poi, alla fine del colloqui, il figlio avvicina le labbra al vetro e prova a baciare il padre di crimine e di sangue, ma viene rifiutato. Sembra la fine, ma forse, ben sapendo di essere ripresi e intercettati, anche quello era un bluff, faceva parte della messa in scena per salvare quel che resta della roba, una parte della famiglia e riassaporare la libertà.
La pantomima di Sandokan è durata tre mesi, novanta giorni utili per spegnere ogni attesa, ogni speranza, ogni proposito di ricostruire verità sulla mattanza di una terra. E adesso per lui si riaprono le porte del 41 bis.
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