La premier si scaglia contro i dossieraggi: «iniziati già con Draghi». Ma l’inchiesta sugli hacker riguarda un uomo che FdI voleva candidare alle comunali di Milano
Il dito di Giorgia Meloni è puntato contro i dossieraggi. «Nessuno stato di diritto può tollerare una cosa del genere», ha detto la presidente del Consiglio, parlando di nuovo delle “spiate” dei conti correnti da parte del bancario di Bitonto, Vincenzo Coviello, e chiedendo alla magistratura di «andare fino in fondo».
Il refrain è il solito. «Il dossieraggio su di me è cominciato già alla fine del governo Draghi quando si capiva che sarei potuta andare al governo», ha subito rilanciato la presidente del Consiglio nell’intervista rilanciata a Bruno Vespa per il suo nuovo libro.
Un passaggio è dedicato, inevitabilmente, alla sorella, Arianna Meloni, che è la «più spiata», sottolinea la premier. «Si accaniscono su Arianna perché non ha le tutele che posso avere io. Purtroppo per loro, è un’altra persona che non ha scheletri nell’armadio», è la tesi della presidente del Consiglio.
Ma, a differenza di altri casi, davanti alla vicenda della centrale di dossieraggi ad altissimo livello esploso in questi giorni a Milano, a destra non c’è stata la solita batteria di dichiarazioni a sostegno della premier. Anzi, c’è un bel po’ di imbarazzo. E la diffusione delle anticipazioni dell’ultimo lavoro editoriale di Vespa ha avuto una tempistica infelice per Meloni.
L’inchiesta di Milano che vede infatti al centro di tutto Enrico Pazzali, presidente della Fondazione Fiera Milano, titolare della società Equalize, e soprattutto esponente di spicco della destra lombarda.
Pazzali e la destra
Nella maggioranza non si può negare la vicinanza politica del manager al presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana. Pazzali è stato «perfino immaginato da più parti come un possibile candidato sindaco alle prossime elezioni comunali milanesi», ha ricordato Pierfrancesco Majorino, eurodeputato del Pd. Un candidato civico in grado di mettere insieme tutti i partiti.
Pazzali era il nome che Fratelli d’Italia pensava di mettere sul tavolo, forte di una sponsorizzazione d’eccezione, come quella del presidente del Senato, Ignazio La Russa, e della ministra del Turismo, Daniela Santanchè, i diarchi della fiamma in Lombardia, trovando il placet della Lega, attraverso Fontana. Certo, tra i documenti dell’inchiesta è spuntato un report di Pazzali proprio sulla seconda carica dello stato e sul figlio Geronimo La Russa.
Nelle carte, però, c’è anche il nome di Licia Ronzulli, ex capogruppo di Forza Italia al Senato ed esponente di spicco degli azzurri in Lombardia, che avrebbe un rapporto diretto con il titolare della Equalize. I silenzi a destra fanno trasparire tutto l’imbarazzo sull’inchiesta di Milano.
In altri casi l’approccio è stato ben diverso. Il solo leader di Noi Moderati, Maurizio Lupi, ha fatto sentire la sua voce, tenendosi comunque sul vago: «Dobbiamo uscire rapidamente da questa nuova stagione dei veleni». Mentre il segretario leghista, Matteo Salvini, ha fatto sapere che il suo partito «proporrà in parlamento un incremento delle pene per i cosiddetti spioni».
Le reazione dem
Dal Pd, seppure senza alzare i toni, arriva una richiesta di chiarimento. «Gli attori politici coinvolti, a partire dal presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, chiariscano se fossero a conoscenza delle attività svolte nel loro interesse e, in tal caso, come mai non abbiano contribuito a smascherare la rete di malaffare che ne era alla base», osserva il senatore dem, Marco Meloni.
E c’è invece chi, come il leader di Azione, Carlo Calenda, chiede un intervento del governo, chiamando in causa direttamente il Viminale: «Occorre un’azione preventiva del ministero dell’Interno su tutte le società che operano nel settore».
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