La coincidenza tra l’inizio del governo Meloni e il centenario della marcia su Roma, nell’ottobre 2022, forse impressionò qualcuno. Ma in realtà, nel 1922 il peggio doveva ancora venire.

Nei primi due anni, Mussolini si trattenne, contendendosi, pur a stento, in una cornice di contezza istituzionale. L’aveva detto lui stesso appena arrivato: «Potevo sprangare il parlamento. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». Il “primo tempo” finisce nel ’24, e da lì è tutto un franare senza possibilità di ritorno.

Un secolo dopo, il problema non è il 2022, ma è il 2024. Più che agli inizi, le forze politiche al governo mostrano un sempre maggiore disagio con la formula democratica e i suoi corollari. L’astuzia sta nel dissimulare un disegno generale e coerente, ma se con lucidità e attenzione si uniscono i puntini, il malcelato progetto politico della destra italiana emerge con spaventosa chiarezza.

La vicenda dell’elezione del giudice da mandare alla Corte costituzionale è piuttosto indicativa; e soprattutto è indicativa la dichiarazione del vice premier Matteo Salvini: «Per eleggere i giudici della Corte serve la collaborazione di una parte dell’opposizione». Il leader della Lega fraintende del tutto la logica della norma che richiede una maggioranza più alta di quella ordinaria per l’elezione di un giudice della Corte costituzionale.

Poiché quidquid recipitur ad modum recipientis, Salvini intende che debba essere l’opposizione a fare la brava, e a collaborare con la maggioranza – peraltro, dice «una parte dell’opposizione»: gli basta qualche voto, in una logica mercantile che mortifica la dignità del Parlamento e della politica.

Ma, in realtà, il senso della previsione di una maggioranza qualificata va proprio nel senso contrario. Quello, cioè, che sia la maggioranza a sforzarsi di proporre un nome condiviso per quello che è il più importante organo di garanzia costituzionale del nostro sistema.

L’essenza del sistema 

Il punto è che a certa destra sfugge l’essenza della democrazia. Quando da piccoli si giocava nel nostro gruppetto di amici e si doveva decidere qualcosa, ci si contava, e chi era in minoranza si sentiva dire: «È la democrazia: decide la maggioranza». Siamo tutti cresciuti con questa idea piantata nella testa, che però è tutta sbagliata. La democrazia non è il sistema in cui decide la maggioranza: quella è una tirannia – tirannia della maggioranza, ma sempre tirannia. La democrazia è il sistema in cui è tutelata la minoranza. L’esatto opposto dell’occupazione di ogni spazio del potere che sta operando il governo Meloni nel suo strabordante revanscismo.

Senza lasciarsi impressionare troppo dall’analogia richiamata in apertura, forse oggi bisogna che ciascuno ricordi a sé stesso due cose. La prima: che davvero raramente una involuzione autoritaria si è realizzata da un giorno all’altro, e che spesso chi ne viveva la contemporaneità se n’è accorto – se se n’è accorto – quando era ormai troppo tardi. Il diavolo non si presenta mai con le corna e la faccia rossa.

La seconda: che nessun sistema democratico è immune a questo rischio. Perché non esiste un sistema democratico perfetto. Le vicende degli ultimi anni ci hanno liberato da un grande mito su cui ci siamo adagiati per decenni: che in Europa non avrebbe potuto esserci più la guerra. È una lezione che dobbiamo imparare, per immunizzarci dagli altri miti che ci siamo costruiti dal secondo dopoguerra in avanti. E, tra questi, quello per cui il nostro sistema democratico ha efficaci anticorpi contro il ritorno dell’autoritarismo.

La libertà è come l’aria

Ci vuole molto meno di quanto si possa immaginare. La Costituzione prevede due organi di garanzia: il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Un governo forte, con una maggioranza solida in parlamento – come quello in carica –, può ben riuscire a far eleggere presidente della Repubblica un suo uomo.

E a quel punto, potrebbe avere in mano anche (più del)la maggioranza della Corte costituzionale: su 15 membri, cinque sono eletti dal parlamento – e dunque dalla maggioranza di governo più qualche voto racimolato con mezzi più o meno leciti – e altri cinque sono nominati dal presidente della Repubblica – che, in questa ipotesi di lavoro, è uomo del governo.

Catturati i due organi di garanzia, il governo chi lo ferma più. (Forse lo può fermare l’Europa, questo sì, ma il discorso è complesso. E non è casuale certa insofferenza della nostra destra verso l’Europa dei diritti).

Certo, si obietterà che si sta presumendo malafede, che esistono convenzioni costituzionali e prassi consolidate, eccetera. Ma la storia ha insegnato che il peggiore dei mondi possibili certe volte accade. Ed è importante che le norme di garanzia della democrazia siano pensate su questo peggiore dei mondi, e non certo sul migliore.

È questo il motivo per cui per la nomina alla Corte costituzionale è richiesta una maggioranza più alta di quella ordinaria. Ed è questo il motivo per cui il sistema di garanzia ed equilibri tra poteri va preservato ad ogni costo contro il disegno di premierato presentato da questo governo.

«La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare» (Piero Calamandrei, Discorso agli studenti milanesi, 1955). Il dramma è che ce ne si accorge sempre troppo tardi.

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