Quando l'avvocata Giulia Bongiorno affianca in tribunale il politico imputato, l'imputato può tirare un sospiro di sollievo, il politico invece farebbe bene a essere preoccupato. È stato così per Giulio Andreotti venticinque anni fa, succede oggi a Matteo Salvini. L'assoluzione giudiziaria lava l'imputato dalle accuse, ma consegna il politico alla storia, certificando la sua uscita dal proscenio. Andreotti fu processato per mafia e per l'omicidio Pecorelli, reati che avrebbe commesso da presidente del Consiglio. Fu assolto (e prescritto), ma da tempo non era più il Divo della politica italiana. Salvini è apparso precocemente andreottizzato, non solo per la vicinanza della Bongiorno che giovanissima fu determinante per le assoluzioni di Andreotti. Il processo Open Arms riguardava gli eventi di più di cinque anni fa, agosto 2019, quando il Capitano era il padrone d'Italia.

Con la mano destra, da ministro dell'Interno, teneva bloccata una nave carica di migranti nel Mediterraneo. Con la mano sinistra, da leader della Lega, che aveva appena conquistato il 34 per cento alle elezioni europee, fece cadere il governo Conte uno, di cui era vicepremier.

Le vicende si consumarono negli stessi giorni e si conclusero la sera del 20 agosto 2019: mentre i migranti scendevano a terra a Lampedusa, Conte saliva al Quirinale per dimettersi, dopo una drammatica seduta al Senato. Il resto della storia lo conosciamo: Salvini sbagliò la spallata, finì in fuorigioco, cominciò a brillare a destra la stella di Giorgia Meloni.

Oggi il processo certifica la distanza dell'attuale Salvini da quello di cinque anni fa. Non solo per la lentezza della giustizia, e per l'impossibilità di racchiudere in una sentenza giudiziaria la verità sul rapporto tra la mafia e la politica nella prima fase di storia repubblicana, nel caso di Andreotti, o sulla questione centrale del nostro secolo, lo spostamento di milioni di persone verso il Nord ricco del mondo per migliorare le condizioni di vita.

L’irrilevanza politica

Il leader della Lega oggi può esultare per l'assoluzione giudiziaria, ma deve fare i conti con l'irrilevanza politica. Chi ha fatto trapelare il suo sogno, tornare al Viminale, rivela la frustrazione di un leader che si è sentito in questi anni dimezzato e che non si considera rappresentato dall'attuale ministro dell'Interno (Piantedosi si è messo da tempo sotto le ali protettive di Meloni). Sulla questione immigrazione il suo rovescio nel 2019 ha fatto scuola. Dagli errori di Salvini, Meloni ha imparato che gli sbarchi non si fronteggiano con i blocchi navali italiani (come anche lei ha chiesto per anni), ma affidando il controllo delle frontiere a Libia e Tunisia e spostando la commissione europea dalla sua parte.

Salvini è assolto, ma notabilizzato, il Salvini del 2019 è stato interamente assorbito dal melonismo vincente, difficile che risorga. Quello che torna a unire Meloni e Salvini, semmai, è l'assenza di un progetto strategico: senza neppure l'avversario giudiziario il governo delle destre navigherà a vista, tirerà a campare, andreottianamente. Ma c'è una lezione da apprendere anche per l'opposizione. Non si affidano le battaglie politiche alle sentenze giudiziarie.

Le battaglie si fanno nella società, nella vita concreta del Paese, affrontando le paure, ascoltando le inquietudini, dimostrando che la risposta migliore all'angoscia del futuro non è la solitudine di ognuno con il proprio incubo, che poi prende la forma dell'orrore di Magdeburgo, ma tenersi uniti, come ci insegnò Antonio Megalizzi, vittima del terrorismo islamico nel cuore dell'Europa, nel dicembre di sei anni fa. È dal corpo a corpo con la società che nasce una politica nuova, non trasformandoci in un Paese in attesa di giudizio, come si è fatto da anni.

Dobbiamo ripetere, soprattutto alla vigilia del Natale cristiano, che la giustizia umana non coincide con la verità assoluta, come pensano le opposte tifoserie, i manettari a oltranza che affidano la politica alle carte giudiziarie e quelli che al contrario in queste ore esultano sui social per l'assoluzione di Salvini come se l'arbitro avesse fischiato un calcio di rigore inatteso.

Quando la verità venne nel mondo, duemila anni fa, fu condannata a morte e crocifissa, con un processo popolare e sommario: l'uomo di Nazareth non era infatti uno dei potenti che anche quando sono alla sbarra possono contare su risorse economiche e su sistemi mediatici raffinati. Era uno dei milioni di vulnerabili della Terra che nascono e muoiono, senza un volto e un nome, senza il tempo di un lamento.

© Riproduzione riservata