L’astensione è una riserva di democrazia. «Non voto perché tanto i partiti sono tutti eguali e non cambierà mai nulla»: questa affermazione è spesso alla base del non voto in Italia, ma anche nelle altre democrazie dove si assiste a un aumento dell’astensionismo in occasione delle tornate elettorali.

C’è del vero in questa affermazione? Ed è sempre un male che questo avvenga? Proviamo a rispondere a queste due domande senza cedere alla passione politica che vorrebbe che tutti fossero ampiamente interessati e coinvolti nei processi elettorali, sale della democrazia.

Promesse e realtà

Non v’è dubbio che il grado di libertà dell’azione politica nei nostri paesi si sia ridotto considerevolmente in ragione delle strette interdipendenze internazionali, sia quelle volontariamente assunte (adesione all’Europa, alla Nato, all’Onu, ecc.), sia quelle involontarie, subìte o imprescindibili (dipendenza dall’estero per approvvigionamenti, vicinanze geografiche, gioco dei mercati finanziari e quant’altro).

L’aumento dei vincoli esterni riduce di molto lo spazio del “cosa fare”, ma lascia un ampio spazio al “come fare”, ossia alla qualità del governo, ciò che va bene per chi è appassionato di politica ma va meno bene per chi ha idee radicali o si aspetta un impossibile cambiamento significativo e rapido dall’azione politica di un governo.

Poiché durante le campagne elettorali i partiti, per ottenere consenso e svegliare la massa degli indifferenti, hanno tendenza a promettere radicali cambiamenti e messianiche soluzioni a problemi storici e radicati, ne deriva una forte delusione quando questi partiti, arrivati al governo, finiscono per allinearsi alle politiche che avevano ampiamente denunziato come sbagliate.

Continuità

Se ripercorriamo i 12 governi italiani che si sono succeduti nel corso di questi primi 22 anni del millennio, facciamo fatica a trovare reali deviazioni di politica, per quanto in termini di qualità e di apprezzamento ci siano state differenze anche importanti: basti pensare alle vicende del IV governo Berlusconi caduto nel 2011.

Per ultimo il governo attuale, guidato da un partito (FdI) che è stato (quasi) sempre all’opposizione in maniera radicale, sta ripercorrendo pedissequamente, almeno fino ad adesso, la linea tracciata dal precedente governo Draghi nelle scelte principali, contraddicendo apertamente quanto sostenuto nella campagna elettorale. Chi si aspettava un cambiamento radicale (finita la pacchia in Europa, autonomia nei confronti della Nato, misure fiscali dirompenti, fino al mantenimento per sempre del Superbonus edilizio), non può che rimanere deluso.

Certo, non v’è dubbio che la qualità del governo sia cambiata notevolmente da Draghi a Meloni ed ognuno può giudicarlo sulla base dei propri valori. Ma è difficile negare che ci sia continuità sostanziale con riferimento agli accordi internazionali, al rispetto delle regole europee, alla disciplina fiscale e a tutte quelle scelte che coinvolgono i nostri rapporti internazionali, pur con qualche tensione bilaterale, sicché non si può dire che abbia torto chi si aspettava cambiamenti sostanziali, se resta deluso e giudica i partiti tutti eguali.

Un prezzo da pagare

Ma allora, è un bene o un male se, anche a causa di questa continuità, ci sono state molte astensioni? Per la stabilità del paese e per la sua affidabilità è sicuramente un bene. Ce ne siamo accorti all’epoca dell’unico governo che andava deragliando da questi principi: il governo gialloverde, il Conte I con Luigi Di Maio e Matteo Salvini, che prese misure e atteggiamenti dirompenti e, per fortuna, durò poco, sicché il paese non ha avuto danni eccessivi.

Il fatto che nelle scelte fondamentali ci sia continuità è un bene per la nostra democrazia perché implica che una eventuale maggioranza occasionalmente diversa da quella precedente non può sovvertire il quadro dei valori principali e questo garantisce chi si trova in minoranza, posto che l’essenza della democrazia è la tutela delle minoranze e non l’arbitrio delle maggioranze. Anche per questo si stabiliscono trattati e accordi internazionali che vincolano i paesi e riducono la loro sovranità a tutela del bene comune.

Resta ovviamente importante, per delimitare l’area dell’astensione e della disaffezione dalla politica, che i partiti siano più onesti in campagna elettorale e non si avventurino a solleticare interessi, paure e desideri che comunque non saranno in grado di soddisfare, perché impossibile o perché non opportuno. Una quota rilevante di astensione è dunque un prezzo da pagare anche se genera indifferenza per la politica.

Ma l’area dell’astensionismo non è un’area politicamente persa, perché con le sue oscillazioni è quella che favorisce l’alternanza ai governi. Inoltre, essa può trasformarsi in riserva di democrazia a fronte di governi che volessero veramente sovvertire le sorti del paese.

Ne abbiamo avuto un esempio negli Usa con le ultime elezioni presidenziali, dove l’esperienza sovversiva di Donald Trump ha finito per indurre molti americani a partecipare al voto, riducendo in modo significativo l’area dell’astensione e favorendo così la vittoria di Joe Biden. Ciò che in definitiva è stato un bene per tutti.

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