«Dopo Sanremo, l’altra cassaforte della Rai è la fiction. È lì che vanno i soldi, è lì che si creano prodotti che poi garantiscono la pubblicità». E, soprattutto, è là che si imposta la narrazione del futuro e si immaginano le storie che gli italiani guarderanno negli anni a venire. L’affermazione è di un dirigente di primo piano della Rai: anche i vertici di rito meloniano sono ben consapevoli di quanto sia prezioso quell’asset che riceve una fetta tutt’altro che piccola dei fondi destinati al servizio pubblico.

Una cifra di diverse centinaia di milioni di euro: non proprio bruscolini, insomma. Di cui si è accorta da tempo la Lega, che ha avvertito l’importanza del cinema (e dei capitali che vi circolano) molto prima di quando i Fratelli d’Italia avessero i mezzi per proporre la propria controcultura di destra occupando la principale azienda del settore. Ma sono lontani i tempi in cui il Carroccio spingeva per far coprodurre alla Rai Barbarossa, film di dubbia qualità e dagli incassi deludenti. Oggi la campagna della Lega sull’audiovisivo ha un solo volto, quello della sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni.

L’universo sovranista

Le fiction che la Rai trasmette hanno bisogno di essere scritte, realizzate, confezionate: per chiuderne una ci si mette almeno un anno e mezzo, motivo per cui siamo appena all’inizio della produzione sovranista. Si stanno infatti esaurendo gli ultimi progetti di Eleonora Andreatta, a capo della direzione fiction fino al 2020, quando è subentrata Maria Pia Ammirati. Insomma, la pioggia di gerarchi fascisti, foibe ed eroi risorgimentali che hanno invaso il servizio pubblico in questa stagione, paradossalmente, non aveva ancora nulla a che vedere con i piani di TeleMeloni.

Il bello arriva adesso. A luglio, dopo la definizione del nuovo consiglio d’amministrazione e dei vertici aziendali, è in programma una tornata di nomine che dovrebbe stringere ulteriormente la presa dei Fratelli su viale Mazzini. Per un periodo per la direzione della fiction è circolato il nome del direttore del day time Angelo Mellone, ma allo stato attuale sembra più probabile che il cantore della provincia finisca a fare il coordinatore dei generi oppure il direttore dell’intrattenimento (prime time e day time dovrebbero fondersi).

Il regno della fiction, dunque, un po’ per mancanza di alternative e un po’ perché è considerata ormai esperta di un mondo complesso, dovrebbe rimanere in mano ad Ammirati, in realtà di estrazione dem e considerata nell’orbita dell’ex ministro della Cultura Dario Franceschini, anche se più di un dirigente ha dovuto fare i conti con la sua indipendenza. A Giampaolo Rossi, probabile futuro amministratore melonianissimo, però Ammirati non dispiace affatto. La Lega non le è ostile, anche se, qualora nella partita di scacchi delle nomine dovesse saltare l’incarico di direttore generale a cui aspira il partito di Matteo Salvini, approfondimenti e fiction sono in cima alla lista delle richieste. Il nome organico, nel caso, sarebbe quello del direttore dei documentari Luca Zappi.

Ma, pur guidando la direzione ormai da quattro anni, i prodotti di Ammirati (e anche le ultime fiction di Andreatta) non hanno dato i frutti sperati. Ad andare meno bene di quanto fanno in genere le fiction Rai è stata per esempio La rosa d’Istria, che si è fermata intorno al 17 per cento di share. In generale, i soggetti sovranisti, che le case di produzione e i creativi aziendali hanno iniziato a proporre già da qualche anno, non sembrano scaldare troppo il pubblico.

Le tre puntate de La lunga notte, sulla caduta del fascismo per mano del gerarca Dino Grandi (che nella fiction mette fine al regime praticamente da solo) ha raggiunto e superato il 20 per cento. Il risorgimentale Mameli era arrivato anche a toccare il 23 per cento degli ascolti.

Sono prodotti che spesso permettono ancora alla Rai di vincere ancora la gara sulla prima serata, ma certo gli ascolti non sono certo quelli di Doc, che al suo finale di stagione ha toccato il 30 per cento di share, doppiando praticamente Canale 5. La ragione, secondo i piani alti di viale Mazzini, sta nel fatto che i prodotti vengono fruiti anche su altre piattaforme, una motivazione che però raramente viene tirata in ballo per prodotti che funzionano anche sul tubo catodico, come i game show che vanno bene nelle rilevazioni.

Audiovisivo leghista

Resta da vedere cosa avranno da offrire i manager della destra al pubblico. Anche perché l’audiovisivo, in Rai come al ministero della Cultura, non appare in cima alle priorità dei Fratelli. Anche a via del Collegio romano, infatti, il cinema è territorio indiscusso di Borgonzoni. La sottosegretaria leghista è in carica dai tempi del governo Conte I, con una breve interruzione solo per l’anno e mezzo in cui a palazzo Chigi c’era l’alleanza giallorossa. Insomma, una veterana: le associazioni dei produttori di cinema e fiction le riconoscono una grande presenza sul campo e una spiccata capacità di curare i rapporti personali. L’ultimo dossier di cui si è incaricata è la riorganizzazione del tax credit per il cinema.

Dopo che il ministro Gennaro Sangiuliano aveva proposto in fretta e furia di tagliare 100 milioni di euro dal fondo a disposizione dei produttori che soddisfano le condizioni richieste, Borgonzoni si è presa la briga di riorganizzare uno strumento che – denunciano anche i produttori più piccoli – rischia di avvantaggiare in maniera sproporzionata i grandi gruppi. Sempre secondo i piccoli, infatti, spesso i costi di produzione dei film, e quindi di fondi recuperati dal pubblico, appaiono cresciuti in maniera spropositata rispetto agli anni passati.

Nei piani della sottosegretaria, i film commerciali che vorranno ricevere il sostegno pubblico dovranno avere una copertura preventiva del 40 per cento del costo di produzione, mentre i contributi cosiddetti “selettivi” del 40 per cento da parte del ministero sarà automatico per le cosiddette opere “difficili”.

Per facilitare i produttori piccoli e medi, poi, il proposito è quello di aumentare la cifra erogata in anticipo, passando da un rapporto 40-60 a un 70-30. Le nuove regole sono una proposta per calmare le acque tempestose in cui navigano soprattutto le case produttrici più piccole, che hanno difficoltà ad operare senza la certezza dei contributi pubblici su cui le banche contano come garanzia per gli anticipi dei finanziamenti. Gli indipendenti si sono riuniti venerdì scorso per condividere i problemi che complicano loro la vita. È con loro che Borgonzoni vuole costruire un rapporto, anche grazie alla mediazione di quella che è diventata ormai una amica personale, Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà e dell’Associazione produttori audiovisivi.

Cresciuta anche lei in ambienti Pd, tanto che la sua nomina alla guida degli studi più importanti d’Italia arriva per mano di Franceschini, che l’affianca all’amministratore delegato Nicola Maccanico, Sbarigia si è costruita negli ultimi anni una nuova sponda a destra, dove il suo punto di riferimento principale è proprio Borgonzoni.

Alla sottosegretaria è utile saggiare il terreno nel settore per valutare i prossimi passi da fare, mentre a Sbarigia vengono attribuite mire sulla poltrona da amministratrice delegata di Cinecittà, per cui la stima della sottosegretaria è essenziale: ne sarebbe prova l’intervista rilasciata al Tempo qualche giorno fa, giusto in tempo per la scadenza della poltrona di Maccanico.

I satelliti dei “gerarchi”

Ma al di là delle alleanze, sia Borgonzoni sia Ammirati si muovono da maestre nella giungla che è il mondo dei produttori. Un settore in cui prosperano, a seconda del colore del governo, diverse società. Attualmente a essere particolarmente lanciati per quanto riguarda la produzione delle fiction – ma tornano in parte anche nell’assegnazione dei selettivi da parte del ministeri – sono soprattutto le case legate ad ambienti di centrodestra.

Basta scorrere le ultime messe in onda della direzione fiction: Mameli è un’opera di Pepito, società riconducibile ad Agostino Saccà, che ha all’attivo anche film di peso come Hammamet di Gianni Amelio. Saccà ha anche coprodotto con Luca Barbareschi, intellettuale d’area e per un periodo alla guida del teatro Eliseo: la sua casa di produzione porta lo stesso nome e nell’ultima stagione ha firmato il film per la tv La luce nella masseria e la miniserie in tre parti La lunga notte. Nell’ambiente si segnala anche Noi siamo leggenda di Nicola De Angelis e la sua Fabula Pictures, rinnovata per una seconda stagione nonostante ascolti non proprio brillanti.

Viene data in grande ascesa Manuela Cacciamani, che con la sua One More pictures produceva gli spot di Fratelli d’Italia già nel 2013, prima che andasse di moda essere di destra, insomma. Restano in campo però anche i grandi nomi del settore, come Lux vide, la società evergreen (suoi sono successi come i Medici, Doc, Don Matteo e Blanca) fondata da Ettore Bernabei, controllata da Fremantle (del cui gruppo fa parte anche la strasversale Stand by me, che produce la serie Il santone, scritta niente meno che da Osho, alias Federico Palmaroli, vignettista di riferimento dei meloniani) e la Clemart di Gabriella Bontempo, tra le altre cose ex moglie di Italo Bocchino, la Picomedia di Roberto Sessa che firma Marefuori e Publispei, che ha prodotto La rosa dell’Istria. Banijay, l’altro player dominante insieme a Fremantle, che ha in catalogo prodotti come Un professore, Cuori 2 e Il paradiso delle signore. Insomma, alla tavola di Rai e ministero della Cultura ce n’è per tutti, basta proporre i soggetti giusti.


Diritto di replica

Ho letto con sorpresa su un vostro link l’editoriale di Lisa Di Giuseppe dal titolo “Le mire di Fratelli d’Italia sulle fiction Rai”, in cui si parla tra l’altro della serie La lunga notte – La caduta del duce della quale sono stato ideatore e cosceneggiatore. Ho appreso così che, pur essendo da sempre di sinistra, come testimonia la mia filmografia, secondo Di Giuseppe avrei scritto una serie che rientrerebbe tra “i soggetti sovranisti”, anche se per fortuna “paradossalmente” non ha “nulla a che vedere con i piani di Telemeloni”. Almeno questo.
La scrittura de
La lunga notte è cominciata anni prima che Giorgia Meloni, certo non votata da me, si insediasse a palazzo Chigi. È andata in onda quando Meloni era ormai premier, ma usare questa casualità per parlare di sovranismo non ha alcun senso. Meno ancora ha senso insinuare che la serie sia di destra soltanto per via dell’argomento, dato che io ho raccontato da un punto di vista antifascista un dittatore sanguinario e avulso dalla realtà, messo in minoranza il 25 luglio del 1943 dai suoi stessi gerarchi, il tentativo di Maria José e di Umberto di Savoia di opporsi a Mussolini, l’intervento risolutivo attuato dall’esercito per ordine del re, i primi passi di quella che sarà la Resistenza. Questo lo hanno percepito bene i post fascisti che si sono inferociti nel vedere La lunga notte.
Nell’editoriale si sostiene anche che nella serie Dino Grandi “mette fine al regime praticamente da solo”. Neppure questo corrisponde al vero. Tutti coloro che agirono contro il dittatore nel luglio del 1943 sono raccontati. E Grandi è tratteggiato per come fu: ex capo squadrista, gerarca del regime, corresponsabile dei crimini del fascismo e tuttavia, piaccia o meno, artefice dell’ordine del giorno che mise in minoranza Mussolini. Fu proprio quel voto che fornì a Vittorio Emanuele III “l’appiglio” (così lo definì lui stesso) di cui aveva necessità per agire come fino ad allora non aveva osato fare. Esattamente come mostra la serie. Di Grandi ne
La Lunga Notte viene detto tutto quello che i suoi avversari pensavano. Lo ritenevano opportunista, arrampicatore, spregiudicato, arricchito grazie al regime, senza spina dorsale (giudizio quest’ultimo sempre del re). Però ne sono narrate le motivazioni, come deve fare ogni autore nei confronti di tutti i suoi personaggi. A meno che non si voglia riscrivere la Storia, cosa che non credo si auguri Di Giuseppe.
Franco Bernini, ideatore e cosceneggiatore de La lunga notte

9 dicembre 2024

Risponde l’autrice dell’articolo:

Gentile Bernini,
Come nota giustamente nella sua lettera, ho dedicato un ampio preambolo a spiegare che per pensare e realizzare le fiction ci vuole parecchio tempo, motivo per cui La lunga notte non rientra nei titoli della produzione "sovranista". Per quanto riguarda la ricostruzione storica, avendo una formazione differente, non mi permetto di metter bocca, né tantomeno di "riscrivere la storia". L'inciso a cui si riferisce era soltanto un riferimento ironico al protagonismo del personaggio. Questione di gusti, senz'altro.

Lisa Di Giuseppe

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