Febbraio, per la Sardegna, non è un mese qualsiasi. È il mese di Su Carrasecare, che a differenza di qualsiasi altro carnevale, non rappresenta esattamente una festa ma un rito propiziatorio. E il 25 si voterà per il nuovo presidente
Febbraio, per la Sardegna, non è un mese qualsiasi. È il mese di Su Carrasecare, che, a differenza di qualsiasi altro carnevale, non rappresenta esattamente una festa, ma un rito propiziatorio.
Non sfilano carri allegorici, ma cavalieri, che si sfidano su giostre medioevali; le maschere sono androgine perché non servono a irridere i potenti, ma a trasformare l’uomo che le indossa in una divinità scesa in terra, capace di contenere in sé sia caratteristiche femminili che maschili. Non si scherza, ché ci sono le fiamme: la festa del Fuoco, il 17 gennaio, segna la prima uscita pubblica dei Mamuthones di Mamoiada, cioè il momento in cui si aprono le danze, cominciano i giochi. E per convincere il sole a tornare a splendere si accende un rogo, l’artificio che più di qualsiasi altro simula le qualità di calore e luce della nostra stella madre.
Questo è il periodo dell’anno in cui la Sardegna capisce se i mesi che verranno saranno dominati dalla miseria oppure dall’abbondanza: tradizione vuole che i semi che covano sotto la cenere daranno i loro frutti in estate in rapporto al numero di bersagli centrati durante la Sartiglia. A questi rituali classici, quest’anno, si somma il voto per le regionali in programma domenica 25 febbraio.
Tutti contro tutti
Lo scorso 13 gennaio il sindaco meloniano di Cagliari, Paolo Truzzu, ha rotto la coalizione di centrodestra candidandosi a presidente e sfidando apertamente il presidente uscente Christian Solinas, luogotenente della Lega, in cerca di una riconferma che non ci sarà. «Credo che alla fine, vista anche l'insistenza di FdI, il candidato sarà Truzzu», ha detto ieri il vicesegretario della Lega, Andrea Crippa.
Quello stesso giorno a Oristano Alessandra Todde, candidata di Pd e M5s, e Renato Soru, ex presidente in corsa proprio in polemica con la scelta del Pd, parlavano in contemporanea a 250 metri di distanza l’una dall’altro. Prima di sabato il centrosinistra sperava ancora di poter ricompattare le file. Un’impresa impossibile, ma, anche in questo caso, la cultura sarda e il suo Carnevale sembrano contraddire l’evidenza.
Su Componidori, il capocorsa del carnevale oristanese, sale sull’altare allestito per la sua vestizione con una maglietta bianca e dei pantaloni di pelle aderenti. Praticamente spoglio. L’abito gli verrà cucito addosso da mani esperte. E Sa Massaia Manna, la padrona di casa che sovrintende tutte le operazioni, potrà chiedere più volte alle sue aiutanti di disfare la trama e di ricomporla, qualora uno dei tessuti non aderisse perfettamente.
Perché quel semidio con la maschera bianca non può toccare i vestiti, e, per l’intera giornata, dopo aver montato il cavallo, i suoi piedi non potranno più toccare terra. I sardi, insomma, saprebbero come fare, avrebbero nelle corde la pazienza che occorre per confezionare un abito su misura. Forse anche per ricucire il cosiddetto campo largo. Ma per capire bene queste regionali bisogna guardare a un altro carnevale: Sa Carrela ‘E Nanti, la corsa di Santu Lussurgiu, un paesino ai piedi del Montiferru nel quale Antonio Gramsci ha frequentato il ginnasio.
Qui la gara dei cavalieri consiste nel lanciarsi in coppia, a tutta velocità, in una strada sterrata e in discesa, rimanendo tuttavia uniti, cioè stretti l’uno all’altro per un braccio, fino alla meta.
Il problema è che la giostra è così complicata – anche dal fatto che la folla deve aprirsi un attimo prima dell’arrivo dei cavalli al galoppo, per poi richiudersi – che molto spesso si parte appaiati ma si arriva divisi. Proprio quello che è accaduto al Partito democratico in Sardegna, che dopo mesi di incontri, sia pubblici che a porte chiuse, non è riuscito a domare la corsa solitaria di Soru.
Prima di sabato scorso non era neppure chiaro che piega avrebbe preso la competizione che si consuma a destra, chi avrebbe vinto il braccio di ferro tra gli alleati di governo, per i quali chiaramente la Sardegna è solo una campagna d’Africa, l’unica ambizione colonialista che Giorgia Meloni possa permettersi.
Mentre ora è più che mai chiaro che queste saranno le prime elezioni regionali sarde senza Silvio Berlusconi, cittadino onorario di Olbia, il gran maestro di villa Certosa. Non c’è dubbio che quello che Forza Italia considerava il party più centrale del Mediterraneo rappresenti per Fratelli d’Italia la periferia più estrema dell’impero. Tanto che, pur di spezzare le reni al candidato in quota Salvini, Meloni ha sacrificato il primo cittadino di Cagliari.
Così la Sardegna è diventata una faccenda nazionale. Ma il fatto è che non si tratta di una novità: i sardi sono da sempre prigionieri delle decisioni prese a Roma, talmente abituati alle candidature imposte dall’alto che anche quando non lo sono regna una certa diffidenza e il fantasma dell’ingiunzione esterna comunque aleggia. Il risultato di quel costume, o di questa maschera, è che tutti pensano al carnevale sardo, cioè alle prossime elezioni, come a una festa. Mentre è una richiesta all’universo – per molti versi disperata, buia e spaventosa – di fertilità.
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