Il 24 luglio, la Camera con 171 sì e 122 no ha approvato il decreto che stabilisce alcune misure per ridurre i tempi delle liste d’attesa nella sanità, dopo che una settimana prima il Senato aveva fatto lo stesso, e quel decreto è diventato legge. Una legge che non cambierà nulla, anzi avrà l’effetto di impoverire ancor più il servizio pubblico e favorire il privato.

La legge contiene la cosiddetta norma “salta-fila”, che dovrebbe garantire visite ed esami entro le scadenze di legge: per esempio, quando un medico del Servizio sanitario nazionale prescrive a un cittadino una prima visita o un primo esame strumentale, deve indicare se sia di classe U – urgente – da fare entro 72 ore, di classe B – breve – da fare entro 10 giorni, di classe D – differibile – da fare entro 30 giorni se è una visita e 60 se è un esame, oppure di classe P – programmata – da fare entro 120 giorni.

Se al momento della prenotazione non c’è posto entro i giorni stabiliti in un ospedale pubblico, l’Asl dovrà assicurare che la prestazione venga effettuata nei tempi previsti in una struttura privata accreditata, oppure in un ospedale pubblico ma da medici e tecnici del Ssn che operano in regime di libera professione.

Il paziente dovrà pagare solo il ticket, mentre i costi extra saranno versati dallo Stato. Si potranno effettuare le visite e gli esami nelle strutture pubbliche anche di sabato e di domenica, e verranno prolungate le fasce orarie in cui è possibile fissare gli appuntamenti.

I medici e il personale sanitario pubblico – tecnici e infermieri– che svolgeranno prestazioni fuori orario riceveranno compensi sui quali verrà applicata un’imposta solo del 15 per cento (mentre i normali stipendi sono tassati fino al 43): l’obiettivo è di invogliarli a fare gli straordinari perché meglio pagati e, perciò, di ridurre i tempi di attesa.

L’Agenas – Agenzia per i servizi sanitari – avrà il compito di istituire una piattaforma delle liste di attesa nazionale che dovrebbe facilitare l’accesso ai servizi sanitari per i cittadini, e anche migliorare il monitoraggio delle liste di attesa su tutto il territorio italiano, sia nelle strutture pubbliche sia in quelle private. Infine, il decreto prevede la creazione di un Centro unico di prenotazione (Cup) a livello regionale o infraregionale, che coordinerà le prenotazioni per le varie prestazioni presso tutte le strutture sanitarie.

Questa legge non funzionerà mai

Punto primo. Per snellire le liste d’attesa, i medici, gli infermieri e i tecnici degli ospedali pubblici dovrebbero lavorare di più: all’alba, la sera, e pure i sabati e le domeniche.

Ma i medici e gli infermieri italiani sono quelli che in Europa già lavorano di più e con gli stipendi più bassi. Secondo le stime dell’Ocse, calcolando il valore d’acquisto, un medico italiano guadagna in media 105mila dollari l’anno, un suo collega tedesco 188mila, uno olandese 190mila, uno britannico 155mila, uno belga 140mila e uno francese 120mila.

Peggio di noi fanno solo l’Estonia con 76mila e la Grecia con 64mila. Poi, i medici sono pochissimi: con la legge n. 266 del 2005, il governo Berlusconi varò il blocco del turnover del personale sanitario, confermato da tutti i successivi: così, in media, su 100 medici andati in pensione, 10 non sono stati rimpiazzati. In regioni come il Lazio, la Sicilia e la Campania il numero sale a 30.

Nei prossimi 5 anni, un medico su 3 impiegato negli ospedali pubblici italiani andrà in pensione, e molti non verranno mai sostituiti. Inoltre, circa il 10-20 per cento dei nostri medici neolaureati o neospecializzati ogni anno scappa dall’Italia.

Per gli infermieri le cose non vanno meglio. Molti si rifugiano nel privato o scappano all’estero perché, secondo le stime Ocse, lo stipendio medio di un infermiere italiano è di circa 39mila dollari, contro gli 87mila di uno belga, i 59mila di uno tedesco, i 56mila dollari di uno spagnolo o i 48mila di uno britannico. Dei 264mila infermieri in organico, 21mila andranno in quiescenza entro breve, ora ne mancano già 13mila ma da qui a qualche anno diventeranno almeno 25mila.

Un affare solo per i privati

In pratica, con questa legge lo stato dice: “Cari medici, cari infermieri, se lavorerete 7 giorni su 7, h24, mi aiuterete a snellire le liste d’attesa, e io vi darò qualche soldo in più così potrete guadagnare uno stipendio decente” che resterà sempre più basso della media europea. I medici e i tecnici del sistema pubblico sono pochi, esausti e sottopagati: nessuno lavorerà di più per due miseri spicci.

Punto due. Lo stato dice: “Caro cittadino, se non riesci a fare gli esami o le visite in tempo nelle strutture pubbliche, li potrai fare in una struttura privata, tu pagherai il ticket e io verserò la differenza”. Ma le cliniche e le strutture private funzionano secondo la legge del profitto, perciò si concentrano sulle attività più remunerative e più sicure.

Le cliniche private preferiscono effettuare interventi chirurgici di routine, poco rischiosi e rimborsati con alte tariffe: nel privato si effettua il 78 per cento degli interventi per l’inserimento della protesi del ginocchio (rimborso: 12.101 euro); a Milano il 77 per cento degli interventi di sostituzione di valvole cardiache (17.843 euro), il 67 dei bypass coronarici (19.018 euro) e il 62 degli impianti di defibrillatori (19.057 euro).

Sono private molte delle cliniche per la riabilitazione neurologica e quasi tutte le comunità psichiatriche: per ognuno di quei pazienti lo Stato paga al privato una retta che va dai 150 ai 400 euro al giorno. Invece, pochissimi ospedali privati offrono servizi di pronto soccorso o di terapia intensiva, perché sono reparti molto costosi, dove i ricoveri sono brevi e i rischi di perdere il paziente elevatissimi. In sostanza, le urgenze che sono costose e ad alto rischio toccano al pubblico; delle faccende sanitarie più semplici e remunerative se ne occupa il privato.

Le attese infinite

Cittadinanzattiva ha di recente svolto una indagine per valutare le attese per sei prestazioni: prima visita cardiologica, pneumologica, ginecologica, oncologica, eco addome e mammografia. E ha scoperto che in tutte le regioni e in tutte le Asl le visite e gli esami urgenti (U) negli ospedali pubblici vengono perlopiù eseguiti entro le 72 ore. Per le altre visite ed esami le cose cambiano.

Per esempio, nella Asl Roma 4 per l’eco addome completo in codice B si rispettano i dieci giorni di attesa solo nel 17,8 per cento dei casi; nella Asl Napoli 1 Centro appena il 14 per cento delle visite oncologiche in codice B è erogato entro 10 giorni; nella Asl di Bari solo il 9 per cento delle visite pneumologiche in codice B viene fatto entro i 10 giorni. Ci sono zone d’Italia in cui solo il 20 per cento dei cittadini riesce a fare visite ed esami nel pubblico, specie quelli non urgenti: e il restante 80 per cento a curarsi dove andrà? Si rivolgerà al privato, ovviamente, tanto pagherà lo Stato.

Ma la situazione è catastrofica soprattutto per le visite e gli esami di codice P, da fare entro 120 giorni: nell’Azienda universitaria Friuli Centrale, un cittadino deve attendere in media 498 giorni per una eco addome di codice P, e 394 per una visita ginecologica; in Liguria nell’Asl 3 deve attendere in media 427 giorni per una visita cardiologica; nelle Marche solo il 41 per cento delle mammografie è garantito nei 120 giorni previsti. Dove andranno a fare queste visite e questi esami i poveri cittadini? Nelle strutture private, ora lo prescrive persino la legge.

E andrà sempre peggio: un cittadino che abbia un infarto, un ictus o un tumore si rivolgerà agli ospedali pubblici, che si intaseranno sempre di più; chi potrà aspettare si rivolgerà alle cliniche private – tanto paga lo Stato – o se avrà fretta gli toccherà sborsare soldi di tasca sua. Ammesso che li abbia.

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