Dal tre a zero al testa a testa. Le campagne elettorali di Marco Bucci e Andrea Orlando si concludono in contemporanea, ad appena 3 chilometri di distanza: il centrodestra in porto, ai magazzini del Cotone, il centrosinistra più in alto, vicino piazza Corvetto, al Politeama. La sfida è all’ultimo voto, la raccomandazione più forte è quella di Matteo Salvini, che cita il suo idolo americano Donald Trump: per il leader della Lega serve una vittoria «too big to rig», troppo ampia per essere messa in discussione. Antonio Tajani spiega che «dobbiamo vincere il “generale inverno”» e andare a votare nonostante il maltempo. Poi parte la rivendicazione dell’esperienza del governo Toti, di cui «non c’è nulla da cancellare».

«Il sistema Toti è marcio», «si scrive Bucci e si legge Toti», ribattono pochi minuti dopo Giuseppe Conte ed Elly Schlein dal palco in cui lanciano assieme agli altri leader del centrosinistra l’ex ministro del Lavoro Orlando. Conte rivendica la vera paternità del “modello Genova”: «Dicono che il Movimento 5 Stelle è quello del No alle infrastrutture. Ma noi abbiamo detto molti sì. Bucci si vanta del modello Genova? Ma chi l'ha realizzato e finanziato il modello Genova? Noi al governo» dice l’ex premier.

Conte promette poi «tanti sì» e di non essere giustizialista, poi recupera un cavallo di battaglia del governo Conte I, le accuse alla famiglia Benetton: «Tajani ha detto una cosa indegna, ha detto che se ci fosse stata la Gronda non sarebbe crollato il ponte di Genova. Ma il crollo è dovuto ad Autostrade per l'Italia che non ha fatto la manutenzione. Basta proteggere gli amichetti, basta con questa politica malsana».

Il suo contributo, come quello degli altri partiti, per Schlein «porta un valore aggiunto». E partendo dai problemi che vivono i liguri – emigrazione, studenti con disabilità non ancora accolti nelle scuole – arriva alla contestazione diretta della premier sull’aumento di tre euro delle pensioni minime, sulla sanità carente e su una premier «donna che non si batte per i diritti di tutte le altre donne». È la conclusione di una campagna elettorale accidentatissima, appesantita da veti e controveti.

Di Italia viva, che alla fine ha rinunciato a presentare una propria lista, cedendo alla richiesta di Conte, resta l’intervento di Elena Bonetti e la segretaria dem che spiega come «questa è la volta buona», che alle orecchie di qualcuno risveglia echi renziani. Orlando ascolta seduto dietro i leader che si alternano sul palco, al traguardo di una corsa zavorrata anche da liste concorrenti che potrebbero sfilare punti percentuali importanti, come quella di Nicola Morra e Ferruccio Sansa.

Due ex Cinque stelle che puntano proprio ai voti degli attivisti della prima ora, potendosi beare adesso anche del divorzio definitivo tra Conte e Beppe Grillo. Anche se per l’ex premier parlare di parricidio «è un’enfasi inutile. In questo momento il Movimento è assorbito un po' da questa vicenda, però direi che è una vicenda assolutamente marginale rispetto a quello che è il processo costituente che un'intera comunità sta vivendo», prova a minimizzare Conte. Da Grillo non arrivano ulteriori spunti, ma a difenderlo ci pensa Davide Casaleggio: del M5s «è rimasto giusto il nome. Secondo me dovrebbe essere cambiato anche quello e anche il simbolo».

Campagna di accuse

Ma la spaccatura dà lo spunto al centrodestra: «La Liguria è la Liguria noi non la usiamo per fare esperimenti scientifici anche se a giudicare da quello che succede nel campo largo sono scappate le cavie, a giudicare da Conte, Grillo, Renzi il campo largo si è ridotto a un burraco a due» dice Salvini, provando a sminuire la portata della sfida e provando a contrapporsi come centrodestra unito a un campo largo accidentato.

La portata della sfida però, lo sanno tutti, è nazionale, tanto che la celebrazione di due anni di governo Meloni è confluita nella chiusura della campagna di Bucci: i leader si chiamano per nome, a dimostrare una vicinanza che nelle ultime settimane si è vista poco. A Salvini però sfugge la mano sulla politica estera e quando augura il meglio al candidato repubblicano evita di nominarlo direttamente, «altrimenti metterei in difficoltà l’amico ministro degli Esteri». Una delle tante crepe che si aprono nell’immagine di una maggioranza che deve apparire molto più unita di quanto non sia davvero. O almeno, appena più unita del campo largo.

La presidente del Consiglio sale sul palco sulle note ormai familiari di A mano a mano di Rino Gaetano. Nel suo intervento sfoggia un elenco di rivendicazioni, una lunga lista di dati economici ma soprattutto il repertorio ben noto di attacchi alla sinistra. Si passa dalla parità di genere, che secondo Meloni «non si raggiunge facendosi chiamare “presidenta”», all’accordo con l’Albania. In quel caso, i nemici che indica la premier sono i magistrati che fanno riportare in Italia i migranti e gli europarlamentari che segnalano il governo all’Unione europea.

Spazio poi ai temi più vari, dalla probabile nomina di Raffaele Fitto alla legge sul Cinema, con il ritorno sulle riforme promesse dal governo ma parcheggiate a tempo indefinito in parlamento, per altro sotto la spada di Damocle del referendum: premierato, autonomia e giustizia. Con appena un passaggio sprezzante sulle accuse di amichettismo e gli scandali che hanno lambito il suo cerchio di collaboratori più ristretti nelle ultime settimane: «La sinistra continuiamo a farla guardare dal buco della serratura, loro si divertono così». In attesa della puntata di Report di domenica prossima, quando Sigfrido Ranucci si occuperà del sistema Liguria e del ministero della Cultura di Alessandro Giuli. La risposta è affidata a Salvini: «Domenica sera spengo la televisione e per due ore mi ascolto Fabrizio De Andrè». Intanto, da Orlando si ascolta Volta la carta.

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