La premier è convinta che le fonti dei giornalisti siano alcuni dirigenti. E che i “leaks” hanno trasformato in vipere l’ex “compagnia dell’Anello”
Rancori, invidie, vendette. Il partito irriconoscibile, trasfigurato in un nido di vipere, in cui tutti sanno tutto di tutti e ciascuno pretende. Altrimenti? Altrimenti se la canta con i giornali. È l’amara idea che si è fatta Giorgia Meloni dei suoi. Nelle scorse ore si è sfogata con alcuni strettissimi. Chi l’ha ascoltata la descrive terrorizzata da cosa è diventato FdI: non si tratta delle solite figuracce del gruppo dirigente «incapace», verità assodata anche a palazzo Chigi.
Il punto è che ce ne sono alcuni che hanno dimenticato che i panni sporchi si lavano in famiglia, come un tempo. Che hanno rotto l’antico patto di sangue. E siccome, appunto, tutti sanno tutto di tutti, come in un pugno di centurioni che insieme hanno attraversato l’inferno, ora c’è chi parla con i cronisti, spiffera veleni (ma non bugie). Per potere personale.
La storia insegna, e quella romana è sempre stata il loro decumano, che per questi veleni sono caduti papi e imperatori. L’ordine e il controllo sono il bene, l’entropia è il male. Oggi qualche “leaks” è letto come un annuncio di tragedia sul primo governo di destra-destra della storia della Repubblica.
Testate e gole profonde
La premier ha sempre avuto una debolezza per il complotto, la teoria con cui i suoi le nascondono i propri errori. Oggi i sospetti sono certezze. È certa che i media che hanno messo nel mirino FdI abbiano fonti interne. Report, Domani, Il Fatto, sono tre esempi pronunciati ad alta voce.
Primo caso: il servizio che andrà in onda domenica su Rai 3 sul ministero della Cultura, con il corredo di allusioni con cui è stato annunciato dal conduttore («due casi Boccia»), e che ha già fatto saltare il capo di gabinetto Francesco Spano, è sicura che sia stato soffiato dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano (il conduttore Ranucci smentisce).
Secondo e terzo caso: le inchieste sulla gestione «amichettale» di Cinecittà e le fughe di notizie dalle chat dei fratelli sarebbero opera di «infami» interessati a far saltare i nomi imposti dai ministri in questione (Adolfo Urso nel primo caso, Alessandro Giuli nel secondo). In FdI dunque è esploso il correntismo? No, peggio: si annida il virus, per dirla con la vicedirettrice del Secolo, Annalisa Terranova, di «risentiti, vendicativi, livorosi».
La febbre di crescita, in dieci anni dal 3 al 30 per cento, ha prodotto «gente che ha fame» (la citazione è da Gianni Alemanno quando è diventato sindaco di Roma). Un bubbone purulento. Può esplodere. Non c’è più «la compagnia dell’Anello, in cui uno guida e gli altri lavorano insieme», la citazione nostalgica è ancora di Terranova.
Nessuno si tiene più, le liti diventano pubbliche. Come quella di mercoledì in Transatlantico fra la sorella di Giuli, Antonella, storica responsabile comunicazione di FdI, portavoce di Francesco Lollobrigida e ora nell’ufficio stampa della Camera, e l’allievo di Fabio Rampelli, Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura, uno convinto che toccava a lui il ministero che è stato di Sangiuliano.
I cronisti hanno sentito, anche quelli dei giornali amici: lei lo accusava di aver parlato con i giornalisti, lui la sfidava, chiedeva se era una minaccia. Mollicone ha smentito lo scambio. Ma Giovanni Donzelli l’ha confermato, non si sa se per sbaglio o malizia: «Hanno già fatto pace».
Fuori dal girone infernale
Meloni stavolta ha provato a stare fuori dal girone infernale. Per proteggersi ha affidato la gestione del partito alla sorella Arianna e a Donzelli. Ma la prima non è ancora nel ruolo, deve ancora appoggiarsi all’ex compagno Lollobrigida, ex uomo forte di FdI, che conosce uno a uno eletti e militanti; il secondo, un miracolato planato a capo dell’organizzazione, è accusato di fare il padroncino.
Così la premier si è trovata a fare i conti di nuovo, in prima persona, con i guai del ministero della Cultura, dovuti in gran parte agli appetiti degli esclusi. La storia si è ripetuta, la seconda volta in farsa: l’affaire Boccia ha abbattuto Sangiuliano, malcacciato e dunque sospettato di vendette.
Con il pasticcio Giuli, la premier credeva di avere imparato la lezione: ha ostentato distanza. Ma tutti sanno che Giuli ha cacciato il capo di gabinetto Gilioli, irritando Ignazio La Russa, e nominato Spano, mettendosi in rotta con un pezzo di partito (non solo dunque gli omofobici prolife e cattolicissimi alla Mantovano) con il nulla osta di Giorgia per interposta Arianna.
Ora Giuli accetterà lo ius imposto dal potentissimo Giovanbattista Fazzolari (anche lui smentisce) ovvero la velleità di controllo di palazzo Chigi? O può resistere, perché sa che «se viene giù Giuli viene giù tutto»?
Il caso Lazio
La guerra intestina contamina il partito regionale. Facciamo l’esempio di quello del Lazio, troppo vicino al potere romano per essere «un territorio»: è la prosecuzione del partito nazionale in altre stanze. Qui Arianna e Lollobrigida fino a qualche mese fa erano una cosa sola.
Ora sono due. E se alla Pisana c’è chi giura «che le questioni private non hanno mai sfiorato quelle politiche», altri ammettono di essere costretti a fare gli arlecchini servi di due padroni. «Io faccio il mio lavoro, loro decidano chi comanda», dice un consigliere regionale. I rampelliani, viene spiegato, sono insoddisfatti della gestione che fin qui è stata di Lollobrigida. Alle europee l’accordo con lui era che fosse eletto Stefano Tozzi, e invece qualcosa non ha funzionato: qualcuno ha tradito.
La premier non se ne vuole occupare, né vuole litigare con “papà” Rampelli, che non è il linea con i colonnelli ma con il quale lei ha comunque un antico debito di riconoscenza. E poi magari presto dovrà riconoscere che aveva ragione lui di diffidare di questi giovani «affamati»
Lei deve, vorrebbe, occuparsi del governo. Anche perché anche lì non va tutto bene. Il modello Albania si è trasformato in un flop continentale. Lo scontro con i magistrati non ha migliorato i rapporti con il Quirinale. La finanziaria è un guaio difficile da raccontare alla rovescia (vedasi la conferenza stampa rimandata).
Ora punta sulla vittoria in Liguria, per dimostrare che nonostante tutto la destra vince nel paese. Ma, riecco le spie, Report per domenica annuncia un’inchiesta sul sistema Toti. Andrebbe in onda a urne aperte. Nella sua Rai. Mentre i suoi litigano. E si sputtanano a vicenda.
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