«Questo non è uno spettacolo!», disse appena balzato sul palco del teatro Smeraldo di Milano. «Oggi è nato qualcosa che porterà a grandissimi cambiamenti. La Rete non la ferma nessuno!». Ad applaudire duemila persone che si erano accalcate in fila ore prima. Tra loro Adriano Celentano, Claudia Mori e Pietro Ricca.

Sul palco, in camicia bianca, Beppe Grillo, lanciava il nuovo movimento, le effigi del simbolo erano sul podio. «I cittadini comuni possono prendere avvocati che vengono pagati se vincono la causa, altrimenti no», disse a un certo punto, mentre esponeva il programma. E chissà dov'era l'avvocato Giuseppe Conte, quel pomeriggio, quindici anni fa.

Il 4 ottobre 2009, giorno della festa di San Francesco di Assisi, nasceva ufficialmente il Movimento 5 stelle. Nel 2009 al governo c'era Silvio Berlusconi, sembrava inamovibile, eterno. Il Pd viveva il primo interregno della sua storia, a un anno dalla fondazione, dopo le traumatiche dimissioni di Walter Veltroni, con Dario Franceschini segretario di transizione, con le primarie che avrebbero eletto Pier Luigi Bersani. Nessuno avrebbe immaginato che il Movimento sarebbe diventato il primo partito di opposizione, e poi il primo partito del governo, e oggi la mina vagante del sistema politico.

L’inizio dello spettacolo

Lo spettacolo non era finito, cominciava in quel momento, in quindici anni sono cambiati i primattori, i comprimari, le comparse e il copione. Nel 2009, Grillo espose le stelle del Movimento, abolizione delle province e delle prefetture, ambiente, trasporti, energia, («incentivazione della produzione di biogas dalla fermentazione anaerobica dei rifiuti organici»), informazione: «Va abolito il canone Rai, dovrà esserci un solo canale televisivo pubblico, senza partiti dentro!».

Era la metamorfosi del comico diventato leader, la trasformazione finale della creatura inventata da Gianroberto Casaleggio, dai meetup delle origini e dagli amici del blog di Beppe Grillo al Movimento politico che già sei mesi dopo avrebbe ottenuto percentuali a due cifre alle elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Piemonte, un risultato a sorpresa per molti osservatori, ma non per chi aveva ascoltato gli umori profondi della società italiana.

Partì da lì quella che all'epoca apparve l'ultima invenzione della nostra democrazia fragile, l’antipolitica che si faceva politica, guidata da un comico ligure sessantenne che poche stagioni prima spopolava negli show del sabato sera, scoperto da Pippo Baudo e dalla Raiuno democristiana, e che adesso dichiarava la morte dei partiti.

«Italy’s most popular comedian», lo definì The New Yorker nel febbraio 2008 in un lungo reportage intitolato Beppe’s Inferno. Due mesi dopo, l'ambasciatore americano in Italia Ronald Spogli aveva spedito al segretario di Stato Condoleezza Rice cinque paginette in cui scriveva che Grillo era un «interlocutore credibile», «unico» nella denuncia della corruzione pubblica.

Lui in quelle settimane aveva candidato la lista “Amici di Beppe Grillo” alle elezioni comunali di Roma. Lo avevo seguito nel comizio in piazza Navona, sotto un tendone, incappucciato in un giaccone, solo, come un generale nell'accampamento, o un monarca tenuto al riparo dal troppo calore: «Beppe, entrerai nella storia!» gli gridavano. «Ita-lia-ni! I partiti sono salme, sono morti, sono tenuti in vita da media sdraiati per terra, vergognosi! Fanno pornografia politica! Vaffanculo!», sbraitava. Osannato da un codazzo di seguaci, era salito su una Triumph nera, si era infilato il casco, aveva ordinato di mettere in moto ed era corso via, in contromano. La lista prese il 2,6 per cento e 44.000 voti. Era l'inizio.

Il moderato-radicale

Allora sembrò una rivoluzione, la rivolta della società civile, soprattutto nel 2013, il tutti a casa urlato da Grillo nello Tsunami tour che portò il Movimento al suo esordio in un'elezione politica nazionale a conquistare il primato italiano, otto milioni di voti, il 25 per cento, e poi il trionfo nel 2018 con il 32 per cento, che in realtà era già un'altra storia.

Invece l'invenzione di Casaleggio era l'espressione italiana dello sconquasso occidentale ed europeo, anticipava gli anni Dieci del populismo, del trumpismo, della Brexit, la «controdemocrazia» di cui aveva parlato il francese Pierre Rosanvallon pochi anni prima, «la società della sfiducia generalizzata».

Una rivolta dei ceti medi, di una classe media impaurita dall'impoverimento, incazzata per la perdita di ruolo sociale e di peso, desiderosa di vendicarsi con i responsabili della caduta: i politici che aveva sempre votato. Non erano gli esclusi, i forgotten men italiani, i periferici. Gli elettori che avevano portato Grillo e M5s dal due al trenta per cento erano l'evoluzione di una specie forgiata in venti anni di berlusconismo.

Il moderato estremizzato, il moderato radicale che dell'antico moderatismo ereditava non la spinta verso il cambiamento, ma la difesa dei propri interessi, resa disperata dalla paura del futuro. Il Movimento intrecciò un sentire vero della società, con i Di Maio, i Di Battista, i Toninelli, le Taverna, che di quel sentimento furioso erano i figli. Contrastato non a caso in una battaglia senza quartiere dall'altro fenomeno politico che aveva intuito l'ansia di rappresentanza del moderato-radicale, Renzi con la sua rottamazione.

Lo scontro Grillo-Conte

L'ascesa di Giuseppe Conte, dal 2018 in poi, ha rappresentato così per il Movimento 5 stelle il massimo del successo: portare a palazzo Chigi un quasi sconosciuto, uno che gli ambienti accademici e professionali li aveva sempre frequentati restando però sempre sulla soglia della sua infinita ambizione. Ma al tempo stesso è stato il compimento finale del destino, perché nel cambio di pelle è restata la maestria nel destreggiarsi tra i corridoi del palazzo, tra le polemiche di giornata, il botta e risposta con gli altri leader, le comparsate televisive, quel parlamento che andava chiuso e ora è necessario.

Sarebbe importante e perfino utile se la Costituente del Movimento 5 stelle parlasse di questo, invece di avventurarsi in uno scontro finale tra Grillo e Conte che rischia di fare il rumore di un sipario che si abbassa. Nel frattempo la democrazia è diventata ancora più fragile e debole, con una società più indifferente e tentata dal non-voto. E forse è questo lo spettacolo finito.

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