La parola slittamento aleggia sempre di più intorno alla manovra economica. A conti fatti è stato già accumulato un mese di ritardo rispetto alle previsioni iniziali. Il Piano strutturale di bilancio (Psb) a medio termine – in pratica la mappa dell’economia per i prossimi 7 anni – era atteso a Bruxelles per il 20 settembre. La scadenza è stata poi portata più in avanti di qualche giorno, incontrando la disponibilità della Commissione europea. Il governo, con in testa il ministero dell’Economia, puntava a fare tutto entro la fine di settembre. Non sarà così.

La deadline è stata rimandata a ottobre, addirittura alla metà del prossimo mese. L’esecutivo ha rimodulato il timing: adesso è orientato a inviare il Piano insieme al Documento programmatico di bilancio, ossia lo schema della finanziaria atteso da Bruxelles entro il 15 ottobre.

Due documenti in un colpo solo che non sono certo sinonimo di efficienza. Anzi, rendono plastico il ritardo accumulato. E negli ambienti di governo non viene esclusa l’ipotesi, per ora smentita dal Mef, di uno slittamento anche della prima bozza della legge di Bilancio, attesa per il 20 ottobre. Al massimo in quell’occasione ci sarà una versione molto parziale.

Giancarlo Giorgetti non è particolarmente preoccupato da quello che accadrà. Intanto c’è da pensare al day by day, agli affanni della quotidianità. La situazione è complicata. Il Piano strutturale di bilancio – illustrato a grandi linee la scorsa settimana a palazzo Chigi – è ancora in fase di lavorazione negli uffici del Mef dopo i dati diffusi dall’Istat.

Era l’appiglio per prendere qualche giorno in più. Nel Consiglio dei ministri in programma venerdì mattina (salvo cambiamenti last minute), il titolare dell’Economia porterà in ogni caso la versione definitiva del testo per ottenere il via libera e trasmetterlo al parlamento, che lo attende da settimane.

Le commissioni parlamentari lo esamineranno solo a inizio ottobre, un mese dopo. Pazienza. I problemi non sono solo legati al tempo, tutt’altro. La questione è l’accordo politico sulle misure, perché la cassa piange e Giorgetti non vuole sentir parlare di tesoretti. Una definizione che fa venire l’allergia al ministro.

Extraprofitti salvi

Per questo è stato avviato il dialogo con le banche e le compagnie assicurative per capire cosa possono mettere davvero sul piatto. Una questua che potrebbe, alla fine, tradursi in una sorta di prestito degli istituti con restituzione a lungo termine.

L’obiettivo minimo è quello di ricavare un miliardo di euro da destinare direttamente alle politiche per la natalità. Sul tavolo ci sono varie opzioni. Le più plausibili sono il potenziamento dell’assegno unico e l’introduzione di uno specifico bonus, che sia maggiormente visibile per ragioni di immagine e di propaganda.

La linea di Fratelli d’Italia, sotto la spinta di Giorgia Meloni, sarebbe quella di imporre una misura draconiana con la tassa sugli extraprofitti, avallata e rimangiata lo scorso anno. Una vendetta rispetto alla sconfitta di qualche mese fa. E sarebbe lo spot perfetto per la narrazione di un “governo Robin Hood” che toglie alle banche per dare alle famiglie, anzi direttamente ai loro figli.

Ma il progetto meloniano si infrange contro il veto di Forza Italia e anche della Lega, in particolare del ministro Giorgetti. Ci sono dei limiti anche tecnici difficili da superare. «Cosa si intende per extraprofitto e perché demonizzare dei ricavi legittimi fatti dagli istituti?», evidenziano dal Mef.

Il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, è il mediatore tra le posizioni, sfruttando il suo ruolo al ministero – grazie alla delega sul fisco – e la fiducia che nutre nei suoi confronti la presidente del Consiglio. A seguire il dossier ci sono poi Federico Freni, sottosegretario all’Economia ed emanazione del Giorgetti-pensiero, e il deputato di Forza Italia Maurizio Casasco, uomo d’impresa che è sempre più valorizzato nelle gerarchie del partito berlusconiano.

Sebbene non abbia un ruolo governativo è la figura scelta da Antonio Tajani al tavolo della trattativa politica. Al momento, comunque, non c’è stato un vero tavolo con i vertici delle banche. Solo un discorso in via generale che è stato illustrato con colloqui informali, a distanza, all’Abi guidata da Antonio Patuelli. Probabilmente un primo confronto avverrà in settimana, c’è bisogno di serrare i ranghi.

Possibile soluzione

«Gli istituti hanno comunque fornito una disponibilità di massima a dare un contributo straordinario», spiegano a Domani fonti del Mef. E qual è la quadra possibile? Le banche potrebbero tendere la mano allo stato spalmando i crediti fiscali su più anni.

In pratica, se il governo deve ridare indietro a un istituto la cifra in cinque anni, in base all’accordo, i tempi possono raddoppiare sprigionando le risorse nell’immediato. Un giochetto tecnico che assomiglia a una forma di prestito pluriennale. Sullo sfondo, tutta de definite, viene agitata pure l’idea di una tassa speciale anche per i petrolieri.

Diverso il discorso per le compagnie di assicurazione, che guardano con interesse a un’altra prospettiva: l’introduzione della polizza assicurativa contro le calamità naturali. Per le imprese la stipula sarà obbligatoria, come ha ribadito il ministero delle Imprese di Adolfo Urso dopo l’alluvione in Emilia-Romagna e nelle Marche.

Al momento per i privati si valutano eventuali incentivi. Di fronte a un gradito dono in termini di introiti, le assicurazioni possono ridare indietro una piccola fetta. Un do ut des in cui hanno tanto da guadagnare.

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