Un progetto anti manager, che spingerà alla fuga dal pubblico al privato, si unisce alla fiera delle promesse tradite. Dalla flat tax alle pensioni, la manovra economica annunciata da Giancarlo Giorgetti smentisce punto per punto gli impegni assunti dalla destra in campagna elettorale. La nenia è la solita: «Abbiamo un orizzonte fino al 2027».

Ma, alla terza legge di Bilancio, l’attuazione del programma resta una chimera. Tanto che ci si affida all’esito dell’ennesimo condono, il concordato preventivo che scade il 31 ottobre, per fare cassa. Giorgia Meloni si professa «orgogliosa e soddisfatta per una manovra seria e di buonsenso», spargendo elogi per l’unità degli alleati, che però sono già allarmati dalle draconiane misure di spending review.

Manager sotto tiro

Nella furia iconoclasta di colpire il totem della spesa pubblica, il governo non si è limitato a sforbiciare del 5 per cento le spese ministeriali, ma si è lanciato in un’operazione dal sapore quasi comunista. Un’iniziativa che, almeno stando alle parole pronunciate in conferenza stampa, ricorda un certo dirigismo sovietico. Giorgetti ha parlato di un tetto ai compensi dei manager, non solo delle partecipate, ma anche di «tutto l’universo di quelli che sono enti, soggetti, fondazioni, che ricevono contributi a carico dello stato».

Insomma, una serie di realtà dovranno limitare la remunerazione delle figure apicali a 120mila euro (lordi), come il presidente del Consiglio. «Può darsi che qualcuno possa a rinunciare anche al contributo pubblico e decidere autonomamente cosa fare. Qualcun altro invece continuerà a richiedere il contributo pubblico, ma si dovrà adeguare», ha sottolineato il ministro dell’Economia.

Le sue parole hanno fatto saltare dalla sedia i manager che – in caso di approvazione della norma – sono pronti a fare la valigia per migrare verso le aziende private. «Sarà un bagno di sangue», ammette una fonte di governo. «Comunque questa cosa è nuova, non ne sapevamo nulla. Stiamo studiando la vicenda», dicono, stupiti, i dirigenti di Forza Italia. La misura è stata voluta da Meloni. Nella sua formulazione estesa può addirittura riguardare qualsiasi società privata o cooperativa beneficiaria di un contributo statale. Facendo tremare il mondo dei giornali, almeno quelli che ricevono finanziamenti pubblici, il settore cinematografico e della cultura in generale, molto legato al sostegno statale. E non solo.

La preoccupazione è forte: un amministratore delegato di una società che riceve finanziamenti pubblici è sottoposto al vincolo di un tetto? La versione che filtra dal governo tende a minimizzare: «Riguarda un perimetro ristretto agli enti iscritti nel registro dell’Istat». E già sarebbe di una portata epocale, perché riguarderebbe tanti enti, agenzie e fondazioni. «La norma è in fase di scrittura», viene riferito nella confusione generale. Può succedere di tutto, insomma. Ed è la grave conseguenza di approvare una legge di Bilancio al buio, senza un vero testo.

Tutti scontenti

La finanziaria 2025 segna così un record: manca ancora una bozza su cui ragionare e già scontenta tutti. Il malcontento monta addirittura nell’unico settore che riceve qualche soldo in più: la sanità. Giorgetti aveva tessuto le lodi degli investimenti per medici e ospedali ma il comparto si prepara alla mobilitazione. «Gli infermieri sono i grandi dimenticati», ha denunciato Andrea Bottega, il segretario del Nursind, il sindacato degli infermieri. «Valuteremo iniziative di protesta, anche estreme», rilancia Pierino Di Silverio, segretario Anaao-Assomed, sigla che tutela i medici.

Del resto il ministro della Salute, Orazio Schillaci, aveva chiesto 5 miliardi di euro, il Mef di Giorgetti sostiene che ne siano stati stanziati 2,3. Meno della metà. Ma, nelle pieghe del bilancio, va pure peggio: il governo ha stanziato in più solo 1,3 miliardi, perché un miliardo è la somma già prevista lo scorso anno. «Fanno il solito gioco delle tre carte», ha attaccato la segretaria del Pd, Elly Schlein, rilanciando: «Anche oggi il governo ci dà una buona dose di propaganda quotidiana». Meloni è costretta a prendere atto della situazione. Da un lato rivendica che la sanità «è una priorità», ma ammette che «queste sono le risorse che abbiamo». Il contributo (dal valore di 3,5 miliardi di euro) chiesto alle banche e alle assicurazioni è andato in porto.

«C’è chi lo chiama tassa sugli extraprofitti e chi contributo, io lo chiamo sacrificio», ha detto il ministro. Di fronte alla cautela dell’Abi, che attende l’articolato del testo per esprimersi, il ministro dell’Economia abbraccia un po’ di propaganda populista: «I pescatori e gli operai saranno contenti. Un po’ meno le banche».

Tra un blitz e l’altro, però, agli atti c’è già il mancato rispetto delle promesse. Sulle pensioni il governo garantirà giusto una «rivalutazione delle minime». Nessuna cancellazione della legge Fornero, “quota 41” è sparita. «Hanno ridotto ai minimo le possibilità di anticipo delle pensioni», evidenzia Cecilia Guerra (Pd). Anzi, è all’ordine del giorno un contributo pubblico per prolungare l’età pensionabile. Il convitato di pietra è la flat tax.

La Lega si sarebbe accontentata di estendere il tipo di tassazione (15 per cento) per le partite Iva, andando oltre la soglia degli 85mila euro attualmente in vigore. Giorgetti ha buttato la palla in tribuna, spiegando che il dossier è nelle mani del viceministro, Maurizio Leo, per le questioni tecniche. Il governo vede come una gallina dalle uova d’oro l’ennesimo condono, il concordato preventivo in scadenza a fine mese. Se il gettito dovesse andare bene potrebbe esserci un lifting al tetto della flat tax. Stessa musica sul taglio Irpef, il secondo scaglione doveva scendere dal 35 al 33 per cento. Ma dipende sempre dal concordato.

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