La relazione di Giorgia Meloni alle camere prima del Consiglio europeo di giovedì e venerdì è sembrata quasi sottotono. Prima la carota, con la mano allungata, in particolare al Pd, per chiedere unità, in nome dell’Italia, nel sostenere Raffaele Fitto come commissario europeo («Noi lo facemmo con Gentiloni»). Poi il bastone, con un sussulto contro le ong e la Sea Watch e la difesa della legittimità dei cpr in Albania.

Nella replica, però, la premier ha ritrovato il suo guizzo polemico, sia alla Camera sia al Senato, stimolata dagli attacchi del Movimento 5 stelle («Il giorno in cui mi farò spiegare quello che ho detto da un esponente del Movimento, mi dimetterò»). Meloni si è mossa con equilibrismo anche verso la maggioranza, ringraziando entrambi i vicepremier, Antonio Tajani e Matteo Salvini, e offrendo così una sponda, in particolare al titolare dei Trasporti, in vista della chiamata alle armi a Palermo il 18 ottobre, data dell’arringa difensiva nel processo Open Arms.

C’è stato poi spazio per qualche passaggio più economico e una rassicurazione: «Poste rimarrà nelle mani degli italiani, non svendiamo i gioielli di famiglia». Tuttavia, la sensazione è che la premier sia arrivata in aula stanca e anche un po’ nervosa e abbia preferito conservare le energie per la lunga serata di Consiglio dei ministri con la manovra all’ordine del giorno, prima di partire alla volta di Bruxelles. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, non a caso, non era in parlamento ed è rimasto a lavorare al ministero.

L’agenda del Consiglio europeo e quella di Meloni, tuttavia, sono ancora in gran parte puntate sui conflitti in Ucraina («non la abbandoneremo») e Medio Oriente. La premier ha confermato il suo viaggio in Libano (Tajani invece andrà in Israele la prossima settimana) con partenza venerdì una volta lasciata Bruxelles. Ha rimarcato l’impegno dell’Italia per il cessate il fuoco ma anche la richiesta che «venga garantita la sicurezza dei nostri soldati», dopo che «le postazioni del contingente militare italiano inquadrato nella missione Unifil delle Nazioni unite sono state colpite dall’esercito israeliano», che «non si può considerare accettabile».

La conclusione è un messaggio chiaro al primo ministro israeliano Benjamin Netanyhau, per cui «difendiamo il diritto di Israele a vivere in pace e in sicurezza», ma «questo deve avvenire nel rispetto del diritto internazionale umanitario». «L’atteggiamento delle forze israeliane è del tutto ingiustificato», ma la linea del governo è che sia necessario applicare la risoluzione dell’Onu, violata «negli anni da Hezbollah».

Su questo Meloni ha pesato le parole, ricordando la strage del 7 ottobre e rigettando «il giustificazionismo verso organizzazioni come Hamas ed Hezbollah» che tradirebbe «un antisemitismo montante»: le manifestazioni «lo hanno dimostrato».

Alle opposizioni che la attaccavano sull’invio di armi ha risposto che, «dopo l’avvio delle operazioni a Gaza il governo ha sospeso immediatamente ogni nuova licenza di esportazione». Ma per il leader dei Cinque stelle, Giuseppe Conte, la relazione è stata «debole e deludente», sottolineando il doppiopesismo tra Russia e Israele e l’astensione italiana all’Onu. Anche la segretaria dem Elly Schlein ha bollato Meloni come «forte con i deboli e debole coi forti: attacca Sea Watch, ma non alza la voce con Netanyahu». Ha chiesto un embargo totale alle armi a Israele e di riconoscere lo stato di Palestina, «per un vero percorso di pace». Poi ha concluso: «L’antisemitismo l’abbiamo sempre contrastato, a differenza della giovanile del suo partito, ma chiedere sanzioni non vuol dire essere antisemiti né mettere in discussione l’esistenza di Israele».

La difesa di Fitto

L’elemento più inaspettato della relazione, però, è stato la richiesta chiara rivolta al Pd di sostenere la nomina a vicepresidente vicario di Raffaele Fitto, designato dal governo come commissario europeo. Una richiesta di unità nazionale «come noi abbiamo fatto nella scorsa legislatura all’atto della nomina di Paolo Gentiloni, quando proprio Raffaele Fitto, in rappresentanza di Fratelli d'Italia, si espresse a favore del candidato italiano e conseguentemente il gruppo di Ecr votò in suo favore». Un nervosismo, quello di Meloni, che nasce dal fatto che il gruppo dei Socialisti europei – la famiglia politica dei dem – ha tentato di far spostare l’audizione di Fitto come ultimo dei vicepresidenti «dicendo che non avrebbe accettato che all’Italia fosse riconosciuta la vicepresidenza esecutiva». Di qui la richiesta al Pd: «Credo dobbiate parlare con il vostro gruppo», perché «ci sono momenti in cui l’interesse nazionale deve prevalere su quello di parte».

In realtà, la lettura di Meloni ha convinto poco le opposizioni. Matteo Renzi ha ricordato che Meloni, nel 2019 e nel 2014, la pensava diversamente perché «il 5 settembre 2019 invita la piazza contro Gentiloni e il 30 agosto 2014 definisce la nomina dell’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini come un inutile pennacchio». Anche Schlein ha rimesso insieme i ricordi della piazza chiamata contro Gentiloni. «Avete da rivendicare solo la vostra incoerenza», ha detto ricordando il no di Fratelli d’Italia all’intera commissione di cui l’ex premier faceva parte.

La sintesi del Pd è stata quella di non sbilanciarsi, e anche il capogruppo in Senato, Francesco Boccia, ha risposto freddamente: «Mi auguro che lo stesso sostegno l’abbia chiesto anche a Salvini e alla Lega, che non mi pare abbiano intenzione di votare la commissione von der Leyen». L’attuale posizione è quella di aspettare l’audizione prevista per novembre dell’ormai ex ministro e di decidere sulla base di ciò che dirà in quella sede prima di decidere, ma, ha avvertito Schlein, «Fitto non si presenta con il migliore biglietto da visita. Sul Pnrr, l’Italia ha raggiunto il 37 per cento dei suoi obiettivi».

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