Il comunicato della presidente del Consiglio sulla vittoria di Trump usa toni sorvegliati, istituzionali: porge «congratulazioni», parla di «nazioni sorelle», di un legame «strategico», «che sono certa ora rafforzeremo ancora di più». Ci si indovina, molto più che la soddisfazione per il trionfo dell’antico faro americano, la preoccupazione di un governo che sa come, con buona pace dell’«alleanza incrollabile» fra i due paesi, la traiettoria dell’America del nazionalista Trump fatalmente rischi di andare in rotta di collisione con quella dell’Europa, per non dire con la rotta del nazionalismo piccolo piccolo dell’Italia della destra.

Ufficialmente la premier non è nell’elenco degli sconfitti e acciaccati dalla vittoria dei Repubblicani Usa. Ma è lei la sbaragliata italiana numero uno.

La preoccupano le minacce di Trump all’Europa, che hanno un suono sinistro per lo squattrinato governo italiano, dai dazi alla richiesta di aumentare le spese per la Nato. Ora a Bruxelles la premier dovrà barcamenarsi: l’amicizia con von der Leyen, fin qui esibita come bollino di presentabilità, rischia di diventare un marchio d’infamia per l’amico americano. In più per allinearsi a lui, Meloni dovrebbe smontare tutta la costruzione della sua politica estera, lo sforzo filoatlantico che le aveva fatto guadagnare credibilità presso i paesi fondatori, una credibilità con cui chiedere uno sconto sulle radici nere del suo partito. Che sarà, per esempio, della parola data al presidente ucraino Zelensky, se Trump dovesse scegliere di imboccare un processo di pace favorevole a Putin?

Preoccupazioni serie, rispetto alle punzecchiature di Matteo Salvini, che è l’unico della maggioranza a festeggiare davvero la vittoria di Trump. Il leader leghista, dimenticando come sempre di essere un vicepresidente del Consiglio, ieri sui social ha postato un video da tifoso – con tanto di maglietta della campagna elettorale – rivendicando la primazia di quel suo tifo: il sottinteso è rispetto alla premier che si faceva baciare in testa da Biden.

Schlein e i sottintesi di Conte

Nello schieramento opposto un destino parallelo, ancora una volta, tocca alla leader del Pd Elly Schlein. Il crollo dei democratici americani pone un problema serio ai leader socialisti e democratici dei paesi europei.

Ma fra tutti, li pone alla segretaria italiana: perché fallisce, di un fallimento storico, il modello “radical”, non lontano dalle sue ispirazioni. E soprattutto perché la dem italiana deve prendere atto che alle prossime politiche, se toccherà a lei il ruolo di candidata premier, sarà una corsa tutta in salita; con il presidente Usa schierato furibondamente dalla parte opposta, e al suo fianco la potenza mediatica di Elon Musk, già da tempo incursionista nel dibattito italiano.

Come Salvini a destra, anche da questa parte c’è chi rivendica un miglior piazzamento con Trump, ed è naturalmente Giuseppe Conte.

Il primo, da sinistra, a congratularsi per la «vittoria netta, estesa anche al voto popolare», e a offrirsi a una collaborazione per «fermare le guerre in corso». “Giuseppi” non usa toni da avversario politico: anche per la sua tradizionale propensione a pensarsi come premier, anche futuro. Ieri il gruppo M5s, pur smentendo di aver festeggiato, ha rivendicato la soddisfazione per «una lezione per tutti i finti progressisti liberisti e globalisti che hanno ammainato la bandiera della pace per sposare ogni spinta guerrafondaia». Il riferimento è al Pd, dritto. La sfida anche. Ma, al di là del giuramento di non far polemiche, il problema per Schlein è un altro. Che Conte incarni la parte del populista dell’area progressista, e che cerchi di portare a casa i voti di una sinistra borderline, non è inaccettabile per chi cerca di mettere in piedi un’alleanza larga. Il guaio è un altro: è che fin qui quei voti non li riesce a prendere.

© Riproduzione riservata