Il ministro è diventato sempre più una figura istituzionale scontentando gli alleati, come sulla spesa sanitaria. Dal Mef garantiscono che il leghista sarebbe pronto al passo indietro di fronte a richieste troppo dispendiose
Il no pasaran poco gli si addice per l’indole e la formazione politica: evoca la resistenza ai franchisti nella guerra civile spagnolo, uno spirito troppo rivoluzionario per un tipo di poche parole, moderato di destra, come Giancarlo Giorgetti, di mestiere ministro dell’Economia del governo Meloni.
Il senso è comunque quello: non passeranno le richieste di spese per conquistare consensi un tanto al chilo, correndo il rischio di mandare sottosopra un bilancio statale già abbastanza rabberciato. L’ultimo caso è lo stop al decreto per tagliare le liste di attesa della sanità. Il ministro della Salute Orazio Schillaci avrebbe voluto un decreto. Giorgetti ha fatto un po’ di conti, spiegando che mancano le risorse: serve almeno un miliardo e mezzo, se non due. A disposizione ci sono 300 milioni di euro o poco più. La trattativa è in evoluzione. Ma non ci sono colpi di scena di fronte a portafogli vuoti. A dispetto dell’irritazione di Giorgia Meloni.
Per spostarsi su una metafora più gradita a un leghista di lungo corso, la linea del Piave è stata tracciata sulla sanità come su qualsiasi altro settore: i conti devono restare in ordine. Punto. Il numero uno del Mef ha confermato l’orientamento in queste ore di fronte alla conferma del rating italiano da parte delle agenzie. «Stiamo lavorando bene», ha ripetuto. La popolarità e gli slogan spettano ad altri.
Così, dati alla mano, frena gli ardori di leader vari che bramano di allargare i cordoni della borsa per tener fede alle esose promesse elettorali. Il principale responsabile del bilancio statale non ne vuol sapere. Altrimenti è pronto a fare gli scatoloni dal Mef. Ogni passo va calibrato al millimetro, o meglio, al centesimo. «Portatemi le vostre richieste, perché sono giuste e legittime, purché realistiche. Insieme cerchiamo di perseguire gli obiettivi fissati», è il senso del discorso ripetuto in più occasione ai colleghi di governo nei consigli dei ministri. Vale anche per il provvedimento sulle liste di attesa.
Da via XX Settembre, sede del Mef, raccontano che Giorgetti si sia infastidito – per usare un eufemismo – di fronte a decreti, che spesso vengono infarciti di “marchette”, ossia misure costose piazzate qua e là per accontentare qualche lobby amica o che prevedono spese sproporzionate. Così, con santa pazienza, ha dovuto prendere la penna e cassare le parti che gravavano sul bilancio statale. Ribadendo il messaggio: «Niente fughe in avanti».
Superbonus radioattivo
Il ministro dell’Economia, numero due leghista, ha deciso di diventare il custode dei conti, al prezzo di darsi dei nemici tra gli alleati, compresi colleghi di partito, e di risultare l’antipatico della compagnia. Nelle ultime settimane, prima delle tensioni con Schillaci, le incomprensioni maggiori si sono verificate con Forza Italia. La parziale difesa del Superbonus da parte di Antonio Tajani ha fatto irritare – altro eufemismo – Giorgetti, che vede in quella misura il padre di tutti i mali per le casse statali. Lo ha paragonato a un mostro, a Chernobyl, al Vajont, tanto per rendere l’idea.
Una sequenza di iperboli inedite per chi di solito parla poco. Giorgetti è conosciuto per essere più eloquente nei gesti, nella mimica facciale che per le affermazioni. In Transatlantico, ai cronisti che gli fanno le domande, spesso risponde a monosillabi. Un sorriso o una smorfia rivelano molto di più in un approccio perennemente enigmatico. Gli ultimi tempi hanno richiesto qualche dichiarazione esplicita, non solo sul nemico Superbonus. «Servono più sacrifici da chi ha ricevuto il regalo del Pnrr», ha scandito sui tagli ai comuni, senza timore di sfidare gli strali di sindaci, compresi i leghisti. «I conti in ordine sono un’esigenza assoluta», è il mantra mandato a memoria. Una metamorfosi da uomo di partito, è pur sempre un vicesegretario della Lega, a uomo delle istituzioni.
L’unica concessione è arrivata sul decreto spending review (che prevede appunto un taglio di un miliardo in cinque anni per i comuni) con lo slittamento a dopo le elezioni. Alla Camera il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha spiegato che il testo non è definito. Per Giorgetti è una questione di qualche giorno, il tempo per evitare che il provvedimento potesse diventare oggetto dell’ordalia elettorale.
Da Afd all’Ue
Giorgetti sa del resto farsi concavo e convesso, con una dote più unica che rara. Riesce a ingoiare la presenza alle kermesse leghiste, in stile salviniano – che hanno avuto tra gli ospiti l’estrema destra tedesca di Afd – e a muoversi allo stesso tempo nei consessi europei con i ministri dell’Unione. Superfluo chiedere dove si trovi a proprio agio. Anche se talvolta viene da chiedersi cosa ci faccia nel partito che candida Roberto Vannacci che evoca la X Mas. «È l’unico leghista che rimpiange Draghi», consegna a Domani una fonte che conosce bene il ministro.
L’intesa con l’ex presidente del Consiglio non è un mistero. L’idea che possa guidare la prossima commissione europea fa venire l’orticaria a Salvini. Ma sarebbe la realizzazione di un sogno per Giorgetti, che con il leader del suo partito usa un antico sostantivo della politica: la pazienza. Aspettare che «Matteo» superi certe esuberanze, mentre lui procede come ha sempre fatto: tirando dritto. Ancora di più in questa fase, ben conscio della sua importanza. Un cortocircuito giorgettiano, in una traiettoria difficile da comprendere.
Prima i conti
Il ministro ha dalla sua un vantaggio: non ha nulla da perdere. Tradotto: non vuole restare al Mef a tutti i costi. Anzi. L’idea che un giorno possa lasciare non è una fantasia remota. Lo conferma chi lo conosce bene. Per arrivare al punto di non ritorno, però, serve qualche forzatura intollerabile, a cui Giorgetti opporrebbe il gran rifiuto.
Al punto da poter mettere sul tavolo le dimissioni. Altrimenti perderebbe la faccia.Insomma, la possibilità che resti al Mef per l’intera legislatura è tutta da vedere. Perché del doman non v’è certezza, come diceva la Canzona di bacco di Lorenzo de’ medici.
Una prospettiva che aprirebbe un problema gigantesco, per la destra: chi piazzare al suo posto? Per qualche settimana è rimbalzata la suggestione di Maurizio Leo, viceministro e mente economica di Fratelli d’Italia. Il meloniano è rimasto scottato dalla vicenda del redditometrom, introdotto e prontamente sospeso. Per di più, come spiegano da via XX Settembre, «di non poter ricoprire quel ruolo». Il motivo? Bruxelles chiede profili noti. Tanto che l’unica suggestione per un post Giorgetti sarebbe Raffaele Fitto, il tuttofare della premier che si sta sorbendo l’attuazione del Pnrr per conto della destra. Un’opzione realizzabile esclusivamente in un caso: che l’attuale ministro dell’Economia traslochi in Ue nelle vesti di commissario. Insomma, Meloni rinuncerebbe a Giorgetti solo per una promozione sul campo. Più per mancanza di alternative che per una reale convinzione. «Tra i due i rapporti sono ottimi, Giorgia si fida di Giancarlo e avalla l’attenzione sui conti pubblici», fanno da pompieri fonti governative. Resta certo che più di una volta la premier si è infuriata di fronte agli stop del leghista.
Resta che la leader di FdI ha dovuto far retromarcia quando voleva confezionare una misura elettorale, sullo stile degli 80 euro di Matteo Renzi. L’intenzione era di pensare a un bonus tredicesime. Lo stop del custode dei conti ha riportato la premier a più miti consigli con un provvedimento dall’impatto ridotto. Una parziale concessione è arrivata sulla sugar tax, l’imposta prevista per le bevande zuccherate che sarebbe entrata in vigore a inizio luglio. Il ministero dell’Economia ha acconsentito all’ulteriore rinvio. Ma una domanda circola: la premier sarà sempre disposta ad accettare l’intransigenza? Il provvedimento sulle liste di attesa è un valido termometro delle temperatura che si arroventa.
Per il futuro, comunque, la linea del Mef non cambierà. Vigilerà sulle spese senza far saltare i conti. La vera priorità resta il reperimento delle risorse per rifinanziare il taglio al cuneo fiscale, accarezzando l’ambizione di ampliarlo un po’. Poi di mezzo ci sarebbe la riforma delle pensioni, che il solito Salvini di tanto in tanto promette. Sul punto Giorgetti era stato già chiaro tempo fa, addirittura prima della legge di Bilancio: «Nessuna riforma tiene con questa natalità». Chi pensa di portare indietro le lancette previdenziali è avvisato. Da quanto apprende Domani sono al vaglio delle ipotesi di maggiore flessibilità, concentrando gli sforzi per favorire la pensione di chi svolge lavori più usuranti. Tutto, comunque, è in evoluzione. Il paletto piantato è che ogni passo va ragionato. Meloni e alleati sono avvisati.
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