«Se qualcuno pensa che situazioni come queste possano servire a indebolire il governo, temo che non accadrà. Come si dice: è morto il re, viva il re. Si è dimesso un ministro, buon lavoro al nuovo ministro». A Cernobbio, davanti agli industriali del Forum Ambrosetti, Giorgia Meloni ostenta fastidio alla seconda delle due, ma proprio due di numero, domande del direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana sull’affaire Sangiuliano. Meloni minimizza: il ministro si è dimesso «per una vicenda privata» naturalmente gonfiata da «un’attezione mediatica». A palazzo Chigi non si spegne mai la luce, è il messaggio: «Quando ancora la stampa aspettava le dimissioni di Sangiuliano, io ero già al Quirinale a firmare la nomina del nuovo ministro. Perché intendo fare il mio lavoro e intendo farlo bene. E intendo farlo fino alla fine della legislatura».

Il caso dunque è poca cosa: «Dobbiamo riportare le cose alla loro giusta importanza se vogliamo dare una mano alle istituzioni di questa nazione». Quanto a Maria Rosaria Boccia «non intendo battibeccare con questa persona», ma «la mia idea su come una donna debba guadagnarsi uno spazio nella società è diametralmente opposto di quella che ha questa persona». Dalle poltroncine c’è chi strilla «basta», e ce l’ha con il moderatore. L’interruzione risponde alla stessa logica della premier: chiudere il caso. «La platea voleva sentire parlare di green deal, di geopolitica, di problemi italiani e di come affrontare i temi generali», giustifica i suoi colleghi Emma Marcegaglia, ex presidente di Confindustria.

«Nessuno strascico»

Nonostante lo sforzo di chiudere presto il discorso e parlare d’altro, l’espressione scura di Meloni dice tutto: palazzo Chigi per quattro giorni è andato in tilt. La necessità irrinunciabile delle dimissioni di Sangiuliano è stata realizzata in ritardo, quando ormai l’addio non poteva fermare la slavina delle rivelazioni di Maria Rosaria Boccia, «questa persona». E fanno tremare l’ex ministro, dopo aver lambito persino la sorella della premier Arianna, secondo alcune fonti ispiratrice diretta di alcune nomine del ministero; lo stretto giro di consiglieri di palazzo Chigi si è nel frattempo baloccato intorno a ipotesi complottiste: la regia del caso veniva attribuita a Matteo Renzi, anche se si tratta di una balla sesquipedale senza alcun fondamento reale.

Tutto questo ha spedito i due, la presidente e il ministro, contro un muro. E alla fine la premier si è risvegliata nei guai. Intanto ha dovuto rimangiarsi la promessa di finire il mandato con la stessa squadra: fuori uno, Sangiuliano. E non c’è neanche la certezza che il caso sia chiuso, visto che Boccia venerdì sera su La7 ha aperto il file «altre donne». «Dilettanti», li sfotte dai social Francesca Pascale, ex fidanzata di Berlusconi. Ripresa da Boccia stessa: «Questa persona», il riferimento è a come l’ha nominata Meloni, «è proprio una dilettante».

«Nessuno strascico», «il governo è stato tenuto fuori da questa vicenda», rassicura il ministro Crosetto. Ma non è così: l’addio di Sangiuliano è una figuraccia per la premier, ma soprattutto rischia di essere un fosco precedente: a ottobre potrebbe essere rinviata a giudizio la ministra Daniela Santanché. Sarà fuori due? E, se fosse, perché Santanché rinviata a giudizio dovrebbe andare a casa, se il viceministro Andrea Delmastro, già rinviato, è saldo al suo posto?

La giornata a Cernobbio non porta a casa risultati brillanti. Meloni non è ancora in grado di anticipare molto della finanziaria. «Non ci sarà l’abolizione dell’assegno unico», promette che è finita «la stagione dei bonus e dei soldi buttati dalla finestra, delle risorse messe su cose che non danno alcun moltiplicatore», spiega che «ci sono pochi soldi e a maggior ragione non si possono sperperare».

Davanti a una platea sensibile rivendica il programma Industria 5.0, «6,3 miliardi di euro a disposizione delle imprese per efficientare dal punto di vista energetico e digitale il loro lavoro. Si aggiunge a Industria 4.0, al quale erano stati destinati 6,4 miliardi di euro, quindi parliamo di oltre 12 miliardi di euro. Non sarebbe stato possibile se non avessimo fatto la famosa revisione del Pnrr». La sua politica è procedere per tentativi, in pratica fa l’elogio dell’insicurezza della direzione delle politiche di bilancio: «Le misure si mettono in campo, si valuta come funzionano e poi si decidere come muoversi. A volte bisogna avere il coraggio di dire, ho immaginato questa misura, ma non ha funzionato».

La foto con Zelensky

Prima aveva portato a casa la photo-opportunity con Volodymyr Zelensky, il quale spende parole affettuose verso di lei, che a sua volta assicura all’Ucraina l’appoggio dell’Italia fino alla fine: «Ringrazio Georgia Meloni e il popolo italiano per il loro sostegno e il lavoro congiunto per ripristinare una pace giusta», dice il presidente. Ma cos’altro potrebbe dire un capo di governo da tre anni sotto le bombe russe, che dipende in tutto e per tutto dalle armi dei paesi europei?

Ci pensa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, a chiedersi con finta ingenuità perché l’appoggio italiano è condizionato: «Perché non permette all’Ucraina di utilizzare le armi per colpire le basi russe nel territorio russo?». Domanda chiara. Borrell finge di non conoscere i sondaggi che descrivono una pubblica opinione stanca di guerra, che per il governo sono una stella polare, e si risponde da sé: quelle di Meloni sono dunque «belle parole, ma sarebbe molto meglio se permettessimo all'Ucraina difendere se stessa in modo efficiente, altrimenti la Russia la distruggerà».

Panettone amaro

Settimana da cancellare, dunque. Ma le prossime andranno meglio? Meloni punta di cambiare il segno dei media grazie all’aiuto di Ursula von Der Leyen: che dovrebbe presto assegnare una delega “pesante” al nuovo commissario europeo Fitto, e persino una vicepresidenza esecutiva. Che al commissario uscente, il dem Paolo Gentiloni, non aveva concesso. Una carta formidabile per tornare sui giornali come vincitrice di una partita in cui era data – dalle opposizioni – come perdente sicura.

D’altro canto Meloni sa che anche questa vittoria, se arriva, dovrà pagarla: le tante deleghe (affari europei, politiche di coesione e Pnrr) andranno ridistribuite; e sostituireuno dei pochi ministri affidabili è uno dei rebus di questi giorni.

Ma «la stabilità è una chiave di volta», assicura Meloni agli industriali. «Oggi guido il nono governo più longevo della storia, se arrivo a Natale sarà il sesto». Su Pasqua «devo ancora fare i conti perché sono scaramantica. Quando supero il Natale studio la Pasqua».

Il panettone insomma lo mangia sicuro. Il rischio è che sia un panettone amaro. Dipende anche dalle opposizioni, se saranno in grado di presentarsi come un’alternativa di governo credibile e pronta. Stamattina alle otto e mezza a Cernobbio la scena tocca a loro: a Carlo Calenda, Giuseppe Conte e Elly Schlein. Il presidente M5s sarà in collegamento: in mattinata deve poi essere a Roma alla festa del Fatto. I tre dovranno parlare di dossier economici su cui, però, al momento non sembrano andare tanto d’accordo. Che alla fine è la principale polizza sulla vita del governo, quella su cui Meloni crede di poter contare.

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