- Nei primi sei mesi di governo, Meloni non ha avuto un rapporto sereno con i rappresentanti dei lavori. L’ultimo affronto, dal punto di vista dei sindacati, è stata la convocazione per discutere il decreto lavoro dell’esecutivo a poche ore dall’approvazione.
- Ma Meloni è stata duramente criticata anche sul Def e sulla riforma fiscale. Non c’è convergenza neanche sul salario minimo.
- E questo, nonostante in campagna elettorale e in generale Meloni si ponga come vera rappresentante dei lavoratori che il Pd avrebbe dimenticato.
«Fare la cameriera mi ha insegnato molto di più che stare in parlamento». Giorgia Meloni rivendica spesso il fatto di non aver vissuto soltanto di politica (pur essendo stata eletta consigliera provinciale nel 1998, a 21 anni). Eppure, il rapporto con chi tutela quei lavoratori che Meloni vorrebbe rappresentare non è mai decollato. Anzi.
Lo sgarbo più recente è stata la convocazione dei sindacati a palazzo Chigi ad appena qualche ora dalla presentazione (e approvazione) del decreto sul lavoro che il governo vuole portare a casa proprio il primo maggio.
Il Pd per voce della capogruppo alla Camera Chiara Braga l’ha già ribattezzato “primo maggio dei palazzi”, ma Meloni spera di mettere, con il provvedimento, un punto a una settimana difficile, in cui al dibattito sul 25 aprile è seguito il disastro della mancata approvazione della risoluzione sullo scostamento di bilancio a causa delle numerose assenze nella maggioranza.
Ma la convocazione alle 19 di domenica sera non è andata giù ai sindacati. «Non si convocano i sindacati la sera prima» ha detto Maurizio Landini, segretario della Cgil. Una convocazione esclusivamente informativa rende l’idea di quanto sia ormai incrinato il rapporto con le parti sociali.
L’impressione è quasi che Meloni dell’intermediazione del sindacato tra lei e i lavoratori vorrebbe fare a meno. Anche perché, come hanno rivelato questi mesi, lo scontro è dietro l’angolo. Solo sul taglio del cuneo fiscale le decisioni del governo sembrano parzialmente sovrapponibili alle richieste dei sindacati, che comunque vorrebbero vedere uno sforzo maggiore da parte dell’esecutivo.
L’ambizione di rappresentare i lavoratori
La mancanza di intesa si può riconoscere come aperta concorrenza se si tiene presente il fatto che Meloni è erede della destra sociale. Per averne prova, basta guardare alla campagna elettorale di Fratelli d’Italia, che si è proposto come vero difensore delle istanze dei lavoratori e ha dedicato un lungo capitolo (rispetto agli altri, in termini assoluti si tratta di due pagine di brochure accompagnati da un qr code) del suo programma al lavoro. Il punto 6 del testo si colloca quello dedicato alle imprese e quello sul Made in Italy.
«Sostenere la dignità del lavoro» si intitola il capitolo, che si propone di «restituire al lavoro la sua funzione etica» e ricorda l’articolo 4 della Costituzione. Il resto del punto insiste sulla riduzione del cuneo fiscale, con un accenno alla riduzione del gender pay gap e un generico auspicio di potenziamento della formazione.
Tra gli strumenti che Fratelli d’Italia si propone di utilizzare ci sono i voucher, accompagnati da un «maggiore utilizzo dei fondi europei per il sostegno all’occupazione dei soggetti deboli». Un proposito difficilmente attuabile, considerati i grossi problemi che Meloni ha incontrato nell’organizzazione della spesa dei fondi strutturali di Bruxelles, e, ancora peggio, nel lavoro sul Pnrr.
Il lavoro è tornato diverse volte anche nel discorso che la premier ha pronunciato in parlamento per ottenere la fiducia dalle camere. Del sindacato, invece, una sola menzione, nel contesto dell’impegno contro le morti sul lavoro.
Gli scontri nel merito
Il rapporto difficile con i sindacati non ha prospettive di miglioramento. Se infatti gli scontri ci sono già su problemi per cui esistono soluzioni condivise, figurarsi quelli su cui governo e sindacati propongono approcci contrapposti.
Per avere una prova plastica basta ricordare la visita della premier al congresso generale della Cgil a fine marzo. Dopo aver raccolto fischi, cori di “Bella ciao” e iscritti che hanno lasciato la platea, Meloni ha reagito con sarcasmo e parole taglienti, ma il bilancio non è stato positivo. Le distanze con il sindacato si sono allargate se possibile ancora di più. Landini ne aveva preso atto: «Siamo in presenza di una diversità molto profonda e consistente».
Vale lo stesso per il salario minimo, tema su cui insistono anche Pd e M5s. «La legge sul salario minimo non risolve il problema, è uno specchietto per le allodole» diceva Meloni ancora prima di essere eletta. «Il salario nel nostro sistema rischierebbe di creare situazioni peggiori di quelle che abbiamo oggi» ha confermato a metà marzo.
Non c’è iniziativa economica del governo di cui i sindacati abbiano apprezzato l’impianto, nonostante le dichiarazioni altisonanti dei membri dell’esecutivo. Della manovra di cui Meloni diceva che avrebbe messo «risorse a disposizione delle famiglie con redditi medio-bassi» i sindacati erano stati tutt’altro che entusiasti. «Nulla è cambiato rispetto a prima» ha detto Landini, mentre il segretario Uil Pierpaolo Bombardieri l’aveva definita semplicemente «sbagliata».
Stesso discorso per la riforma fiscale a marzo e il Def ad aprile. Per quanto riguarda il nuovo sistema di tassazione, Cgil, Cisl e Uil avrebbero voluto vedere una modifica che tutelasse la progressività, diversamente da quel che succede con la flat tax, e una detassazione degli aumenti contrattuali. Per quanto riguarda il Def, oltre alla richiesta di una maggiore decontribuzione, in particolare la Uil ha denunciato «un'occasione mancata» perché «era necessario un Def che tracciasse una prospettiva di sostegno a una crescita duratura». Sono ormai diversi mesi che le sigle sindacali discutono di una mobilitazione congiunta contro il governo, dopo che anche la Cisl è tornata a condividere lo strumento dello sciopero. Difficile che, in questo contesto, manchi tanto.
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